I primi anni  in Monastero

“Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”
(salmo 27,10)

 

 

 

Marianna De Leyva, entra, nel Monastero di S. Margherita in Monza, il 15 marzo 1589, all’età di tredici anni .
Il monastero di S. Margherita era, allora, come ce lo descrive uno storico dell’epoca, “tetro, uggioso, profondamente malinconico. … Per la speciale disposizione dei singoli locali, quel povero monastero, non aveva un punto solo dal quale la vista potesse ricrearsi d’uno sguardo ai monti, all’orizzonte, all’aria libera. Era per così dire chiuso da ogni parte, ché alla destra il giardino della casa degli Osii tutto lo circondava colle alte piante, a mattina i locali rustici del cenobio toglievano quel poco di passaggio che avrebbe potuto dare la muraglia della città, a mezzodì la chiesa tutto ostruiva ed a ponente infine la porta d’ingesso con tanto di chiavistello”.
Eppure, nonostante tutto ciò che di negativo ha caratterizzato la sua infanzia e la sua fanciullezza, nonostante i motivi “prettamente umani” che l’anno indotta a “prendere il velo”, Marianna sembra essere cresciuta, almeno apparentemente, piuttosto bene, dato che il Ripamonti, descrivendola ormai sedicenne, perciò appena prima o appena dopo la Professione religiosa avvenuta il 12 settembre 1591 (e questa volta, a voler essere “pignoli”, non proprio nel “pieno rispetto” delle norme canoniche che, stando ai dettami del Concilio Tridentino, stabilivano i sedici anni compiuti – mentre Marianna, il 12 settembre di anni ne contava precisamente quindici e dieci mesi- il limite minimo per poter emettere la Professione religiosa), dirà di lei: “era la de Leyva modesta, circospetta, affabilissima, soffusa di un invidiabile candore, amica con tutte, delle discipline letterarie istrutta, come lo poteva essere in allora una giovinetta ben educata, obbediente, per nulla dispettosa, esempio di contegno sociale perfetto.”
Tale opinione sembra, poi, trovare conferma nelle deposizioni rese al processo da sr. Teodora, sua compagna di noviziato, che si dichiarava incredula riguardo ai fatti occorsi tra l’Osio e sr. Virgina, testimoniando che, all’epoca del noviziato, ella era “invidiosa della sua santità”.  
M. Mazzucchelli avanza anche l’ipotesi che la vita in monastero, nei primi tempi almeno, non debba riuscirle poi neppure tanto “sgradita” dato che, tale collocazione  deve averle permesso di stare con altre giovani della sua età e, quindi, di  rapportarsi con coetanee intessendo, con esse, legami di amicizia (cosa mai concessale prima dato “l’isolamento” e la solitudine di Palazzo Marino dove, unica fanciulla, era cresciuta sola, circondata solo da adulti che, per lo più, le erano accanto solo per “dovere” (pensiamo ai domestici, alle balie e ai precettori…) e le tributavano di conseguenza quell’affetto ossequioso e piuttosto freddo che le era dovuto per la sua condizione sociale di “signorina”.
Un altro “colpo” attende però, anche in monastero, la nostra infelice: due giorni avanti la sua Professione le monache sono costrette a concedere a Giuseppe Limiato, la persona presso la quale don Martino avrebbe dovuto aver depositato le “seimila libbre imperiali” costituenti la dote della figlia, una dilazione di due anni. Il padre anche in questo caso si era dimostrato, oltre che di una grettezza inqualificabile e di un’avarizia insaziabile,  indifferente verso la figlia.
In queste circostanze, ben si potrebbe, in un certo senso, applicare a Marianna il verso 10 del Salmo 26 “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”(salmo 26,10) in quanto la madre l’aveva “lasciata” morendo; il padre si era sempre disinteressato completamente di lei (ciò che unicamente gli stava a cuore erano i soldi della figlia e l’unico suo interesse nei suoi riguardi era, di conseguenza, il come riuscire a sottrarglieli) ma il Signore l’amava e, attraverso l’ingresso in monastero (poco importa che esso sia avvenuto per disposizioni umane anziché quale risposta ad un’interiore chiamata divina: il Signore sa servirsi anche degli errori umani per indirizzare al bene), le forniva il modo ed i mezzi per crescere nel Suo amore, all’ombra delle Sue ali (ma, come abbiamo visto, Marianna non era certo facilitata, dalla formazione ricevuta, ad orientarsi verso questa determinazione felice).
Marianna, ormai sr. Virginia, inizia così, la sua vita religiosa. Ha, alle spalle, una certa istruzione nelle “discipline letterarie”, appare “modesta, affabilissima”,  sembra dotata di buon carattere e mostra un “contegno sociale perfetto” ma, quanto a religiosità, guardando al suo passato, non ci sembra di poter arguire “nulla di buono” o almeno “promettente”. Quella di Marianna era una religiosità imperniata su di un pressoché totale formalismo esteriore formato da un indefinito numero di pratiche da compiere o di tradizioni da rispettare e da una miriade di scrupoli di coscienza perennemente presenti. Di un rapporto personale con Dio, sentito come Padre, neppure a parlarne. L’esempio di “paternità”,  fornito da don Martino alla figlia era stato più che deleterio e l’amore materno, era stato a lei precluso dalla prematura morte della madre. Marianna era cresciuta con la pessima influenza della zia e, di conseguenza, anche una volta divenuta  sr Virginia non poteva che continuare a sentire Dio come un Signore “terribile” e “lontano”.
La sua devozione era probabilmente anche sincera. Sr. Virginia era certo convinta che la fede consista realmente in tutto ciò che le era stato “inculcato” fin dalla più tenera età ma, questa fede fredda che aveva imparato a vivere in famiglia, non le scaldava veramente il cuore e non era diventata “parte integrante e sostanziale” della sua vita. La sua “buona fede”, nel vivere la fede come le era stata trasmessa, non le sarà così sufficiente, non riuscirà a guidarla nella vita, a sostenerla nella tentazione e a condurla “incolume” attraverso le vicende alterne della sua travagliata esistenza. La sua religiosità non riuscì, in una parola, a farle comprendere che Dio la amava immensamente, le era accanto in ogni istante e che poteva, quindi, affidarsi a Lui e contare sul suo aiuto in ogni circostanza e situazione interiore si trovasse.
In tale religiosità, vissuta più come “pratica” che come “intimo colloquio con Colui che riempie il cuore”, ben presto si fanno largo, fino a diventare “irresistibili”, le tentazioni e i “rimpianti”.
La monotonia della vita claustrale diviene sempre più pesante e anche a sr. Virginia parrà, forse, che “da la torre di piazza, roche per l'aere le ore gemon, come sospir d'un mondo lungi”  (Carducci: nevicata) da tutto ciò che avrebbe potuto essere e non fu e, per lei, non sarà mai e che “cinereo” sia il “ciel”  della sua vita monastica. Sr. Virginia, probabilmente, si “strugge dentro” sebbene, “fuori”, resista e appaia “una suora modello” … forse anche troppo “esemplare” per non far sospettare qualche “rigidità interiore” e far sorgere il dubbio che, il suo comportamento, obbedisca più a una ferrea forza di volontà che a un’autentica convinzione interiore.
Delle liceità di tali supposizioni sembra darcene conferma Cesare De Lollis secondo il quale,  Geltrude (ma, come abbiamo visto, possiamo tranquillamente equiparare, in questo caso, la figura letteraria della Signora con quella storica), è destinata a “cadere” perché costretta e schiacciata da "le superstizioni del suo tempo, la tirannia della famiglia, le predisposizioni naturali, tutte forze di prim’ordine che, combinate insieme, non possono condurre che alla catastrofe”.
Ma i primi anni di vita religiosa, per sr. Virginia, non sono affatto da “catastrofe”. Ella, infatti, è stimata sia dalla gente del circondario che dalle monache e riesce a “conciliare” egregiamente i compiti a lei assegnati quale suora (sagrestana e addetta alle “putte secolari”, cioè maestra delle educande) con il suo ruolo di feudataria (ruolo che, in assenza del padre, non disdegna affatto di esercitare,  cosa questa che, come vedremo, unitamente al fatto di essere preposta alle educande, avrà le sue ripercussioni nel sorgere del rapporto con l’Osio).