Parsifal

 

Parsifal (o Parceval o Perceval) viene allevato dalla madre nel profondo della foresta in cui ella, rimasta vedova con Parsifal ancora piccolo, si era rifugiata onde preservare il figlio dai rischi della cavalleria (a causa della quale aveva già perso sia il marito che gli altri figli. È per questo che Parsifal viene allevato tenendolo completamente all’oscuro di tutto ciò che riguarda il mondo cavalleresco.

Una volta cresciuto però, Parsifal incontra per caso dei cavalieri, ne resta affascinato e sente “istintivamente” il richiamo verso la cavalleria. Per questo abbandona la madre (che, a sua insaputa, morirà il giorno stesso della partenza di Parsifal a causa del gran dolore causatole dalla partenza del figlio) e si dirige alla volta della corte di Artù onde divenire cavaliere.

Durante il cammino verso Camelot, maldestro e digiuno qual è nell’arte del “viver civile”, nel goffo tentativo di mettere in pratica gli insegnamenti che la madre prima di congedarlo gli aveva impartito (oltretutto tutti in una volta, creando, così in lui, un’enorme “confusione”) riguardo al codice cavalleresco, cui avrebbe dovuto attenersi, si pone in varie situazioni imbarazzanti, comportandosi spesso, sebbene totalmente involontariamente, anche in modo villano e sciocco.

La sua fanciullezza, semplice e spensierata, il suo essere cresciuto “lontano dalle attrattive mondane”, le ha conservato però un cuore fanciullo (lo stesso nome Parsifal deriva da parsi-fal: il puro folle).

È proprio grazie a questa sua innocenza quasi “paradisiaca” che egli, una volta postosi alla ricerca del Santo Graal, vi giunge pressoché immune alle varie tentazioni – cui vanno soggetti invece gli altri cavalieri – meritando di divenirne anche uno dei custodi.

Ma Parsifal non sempre resta fedele e si lascia guidare da questa sua innocenza paradisiaca e in un certo senso “fallisce” e quasi “tradisce” la sua “missione”. Quando? Nella versione fornita dal romanzo di Chretien, ciò avviene all’inizio della sua formazione cavalleresca quando, ancora inesperto, giunge alla corte del Re Pescatore e qui, nonostante assista alla processione meravigliosa in cui vede entrare la fanciulla che porta il sacro Graal, si lascia vincere dal “rispetto umano” e non pone alcuna domanda per il timore di mostrarsi “scortese”. Qui Parsifal tradisce il suo stesso nome (teniamo presente che il nome racchiude un po’ tutta l’essenza stessa della persona) poiché si rivela non essere più parsi-fal (il puro folle), colui cioè che è talmente puro di cuore da risultare folle agli occhi del mondo, ma “si degrada” ad essere semplicemente “un cavaliere educato e razionale”. In questa circostanza Parsifal non segue l’istinto del suo cuore ma i dettami dell’educazione cavalleresca impartitagli. Per questo “fallisce” nella possibilità che gli è offerta di liberare il Re malato dall’infermità che opprime lui e con lui tutto il suo reame.

Ma a parte questo, una volta postosi nella “Cerca”, Parsifal si mantiene “fedele al suo nome” ed è così che, come dicevamo sopra, supera le varie prove che incontra nell’ambito del suo pellegrinare alla ricerca del Graal, quasi senza “fatica” né lotta interiore. Come rileva John Matthews “Egli ha la mente rivolta soltanto alla Ricerca e supera le prove che deve affrontare semplicemente”.

Quello di Parceval è l’atteggiamento del “puro di cuore” esaltato nelle Beatitudini evangeliche. Il suo sguardo è costantemente immerso in Dio e di conseguenza, anche nei quotidiani avvenimenti della vita, egli ravvisa la volontà di Dio per lui ed ad essa si conforma con fiducioso abbandono in quel Dio che sa Padre.

 

 

Il Cammino

 

Parsifal, cresciuto e divenuto cavaliere, compie diverse imprese e si conquista fama e onore ma il suo vero “viaggio interiore” inizia solo quando egli intraprende la “Cerca” del Santo Graal.

È infatti tramite i vari incontri, avuti lungo il camino, con eremiti o “uomini di Dio” che egli rientra gradatamente in se stesso e orienta definitivamente tutta la sua esistenza, già di per sé nobile e casta, esclusivamente al compimento della Volontà di Dio. Analizziamo allora alcuni di questi incontri.

 

La Zia Eremita

 

All’inizio Parsifal giunge presso una donna eremita, che si rivela, poi, essere sua zia, la regina della terra Desolata. Ella non solo gli rende nota la morte di sua madre, avvenuta a causa della di lui partenza, ma gli spiega anche il significato della Tavola Rotonda (della cui cerchia Parsifal era entrato a far parte): Essa era seguita a quella “principale”, “istituita” da Cristo Stesso nell’Ultima Cena, cui si assisero gli Apostoli, e a quella del Santo Graal istituita, sul modello della precedente, da Giuseppe d’Arimatea dopo che, lasciata la Terra Santa, era giunto nella Bretagna portandovi il cristianesimo.

La Tavola Rotonda, come spiega la zia eremita a Parsifal, “si chiama Tavola Rotonda per designare la rotondità del mondo e il corso degli astri e dei pianeti nel firmamento … Così si può dire che la Tavola Rotonda rappresenti il mondo. Vedete bene – dice la zia a Parsifal – che da tutte le terre dove esiste la cavalleria sia cristiana sia pagana i cavalieri che vi appartengono vengono alla Tavola Rotonda. E, quando Dio dona loro la grazia di farne parte, si ritengono più onorati che se avessero conquistato il mondo intero. … L’avete visto anche voi stesso: dal giorno che avete lasciato vostra madre per diventare cavaliere della Tavola Rotonda … siete stato subito conquistato dalla dolcezza e dalla fraternità che deve esistere fra tutti i cavalieri che ne fanno parte. Quando Merlino ebbe istituito la Tavola Rotonda, disse che grazie a coloro che ne avrebbero fatto parte si sarebbe conosciuta la verità del Santo Graal … tre saranno i cavalieri che porteranno a termine l’avventura, due vergini e uno casto”. Dopo avergli spiegato anche il senso del “Seggio Periglioso” – il posto alla Tavola Rotonda mai occupato da nessuno e destinato al Buon Cavaliere, quel cavaliere predestinato dal Dio a compiere il Mistero del Graal – e avergli rivelato che, dei tre cavalieri, di cui aveva profetato Merlino, destinati a giungere al Graal, uno sarebbe stato lui, lo esorta a perseverare: “Conservate dunque il vostro corpo puro come il giorno in cui Nostro Signore vi permise di entrare nella cavalleria, affinché possiate giungere vergine e senza macchia davanti al Santo Graal. Sarà una delle più belle prodezze che mai cavaliere abbia portato a termine”. Parsifal promette e l’indomani riparte alla Ricerca.

 

 

Il Re Mordian

 

Lasciata la zia, Parsifal si mette sulle tracce di Galahad, il cavaliere predestinato. Lungo il cammino si ferma ad un monastero dove viene prontamente accolto e dove assiste ad un fatto prodigioso: al di là di una grata, alla quale Parsifal si era accostato onde assistere alla S. Messa, egli scorge un uomo (che si rivelerà poi essere vecchissimo e coperto di piaghe), coperto da un lenzuolo e disteso su di un letto riccamente addobbato.

Questi, al momento della Consacrazione, si alza a sedere e tende le mani verso l’Ostia Santa, immergendosi in un profondo stato di preghiera intensa fino al momento della Comunione, ricevuta la quale, si distende nuovamente ricoprendosi, come prima, col lenzuolo.

Terminata la S. Messa, Parsifal chiede spiegazione di quanto appena visto ad un monaco. Viene così a saper che l’uomo è il re Mordian, il re convertito al cristianesimo da Giuseppe d’Arimatea. Questo re, saputo che Giuseppe d’Arimatea era stato catturato e imprigionato da un re pagano e crudele, era accorso in suo aiuto e lo aveva liberato. Il monaco spiega poi a Parsifal come mai il re Mordian, vissuto al tempo di Giuseppe d’Arimatea, sia ancora vivo dopo oltre 400 anni e perché versi in quello stato: “il giorno seguente – dice – i cristiani si accostarono alla tavola del Santo Graal… mentre Giuseppe … iniziava l’ufficio, il re Mordian che aveva sempre desiderato vedere il Santo Graal scoperto, si avvicinò più di quanto avrebbe dovuto. Allora si sentì una voce che diceva: “Re, non andare innanzi perché è proibito” Ma egli era già avanzato tanto … e, avendo un gran desiderio di vedere, si avvicinò ancora di più. Una nuvola scese improvvisa davanti a lui e lo privò dell’uso degli occhi e della forza del corpo al punto che non vide più nulla e si trovò paralizzato. Quando si accorse che nostro Signore lo aveva punito perché aveva disubbidito ai suoi comandi, disse ad alta voce: “Mio Sire, Dio, Gesù Cristo, che mi avete mostrato quale follia sia il disubbidirvi, anche se so di meritare questa disgrazia che mi mandate e che soffro volentieri, soccorretemi ugualmente e in ricompensa dei miei servigi fate che non muoia senza aver visto e abbracciato il Buon Cavaliere, il nono del mio lignaggio, colui che vedrà senza velo alcuno le meraviglie del Santo Graal”. Quando il re ebbe rivolto la sua preghiera al Signore Iddio, la voce disse: “Re non temere. … Il tuo desiderio sarà esaudito. …” Così parlò la voce. E le sue parole furono vere perché sono passati più di quattrocento anni. … Da quattrocento anni vive molto santamente e religiosamente e non ha più toccato il cibo di questa terra tranne …il Corpo di Gesù Cristo”.

 

 

Il Cavallo nero

 

Con nel cuore l’esempio e la storia del Re Mordian, il giorno seguente, Parsifal si congeda dai monaci e riprende il cammino. Si imbattè allora in sette cavalieri che lo assalirono, gli uccisero il cavallo e stavano per sopraffarlo quando, in suo aiuto, giunse Galahad, il Buon Cavaliere, il quale, dopo aver sbaragliato i cavalieri, avversari si dileguò nel più fitto della foresta mostrando di non voler essere seguito. Parsifal gli gridò più forte che poté: “Ah messer cavaliere, per amor di Dio, fermatevi un momento perché vi possa parlare”. Ma il Buon Cavaliere finse di non sentire e se ne andò”. Parsifal avrebbe desiderato inseguire il Cavaliere ma essendone impossibilitato (perché senza cavalcatura) iniziò a lamentarsi della sua sventura. Giunse allora una donna che gli promise di fornirgli lei un cavallo a patto, però, che egli facesse tutto ciò che ella avrebbe voluto quando glielo avesse chiesto. “Udendo quelle parole Parsifal si rallegrò talmente che non si domandò con chi stesse parlando. Credeva che fosse una donna, ma non era una donna, era il Nemico che voleva ingannarlo e condurre per sempre la sua anima alla perdizione. Perciò rispose che era pronto a fare ciò che ella voleva. ..Ella disse: … “Allora aspettami, ritornerò tra un istante”. Entrò nella foresta e ritornò con un cavallo grande e magnifico, così nero che era una meraviglia a vedersi. Parsifal lo guardò e si sentì gelare dall’orrore; nondimeno, incurante delle astuzie del Nemico, dopo aver preso la lancia e lo scudo, fu così temerario da montare in sella. Il cavallo galoppò velocissimo e in breve lo condusse fino a “un fiume grande e rapido dove il cavallo fece l’atto di gettarsi. Ma Parsifal, non vedendo né un ponte né una passerella, fu colto dal timore all’idea di guadare il fiume in piena notte; alzò la mano e si fece il segno della croce sulla fronte. Appena il Nemico sentì pesare su di sé il fardello della croce, che gli era molto pesante, si scrollo, gettò a terra Parsifal e si precipitò nel fiume urlando e inabissandosi miseramente mentre l’acqua si infiammava in vari punti e sembrava un braciere di fuoco chiaro. Allora Parsifal capì che a condurlo fin laggiù era stato il Nemico che voleva ingannarlo e portare alla perdizione il suo corpo e la sua anima. Si fece il segno della croce, si raccomandò a Dio e pregò nostro Signore di non lasciarlo cadere in una tentazione che gli avrebbe fatto perdere la compagnia della cavalleria celeste. Levò le mani al cielo e ringraziò Nostro Signore per averlo aiutato in quel pericolo. … Poi temendo un nuovo assalto del Nemico si inginocchiò … e disse tutte le orazioni e le preghiere che sapeva”.

 

 

L’isola deserta

 

Allo spuntar del giorno Parsifal si accorse di essere su di un’isola deserta, abitata solo da animali feroci. Intimorito si raccomandò al Signore “ed è a Lui più che alla sua spada che si affida accorgendosi che nessuna prodezza della cavalleria terrena potrà salvare la sua vita”.

Guardandosi attorno scorse un leone che stava inseguendo un serpente poiché, quest’ultimo, gli aveva sottratto un cucciolo. Parsifal decise di aiutare il leone e, attaccato il serpente combatté contro di lui fino ad ucciderlo. Il Leone gli dimostrò la sua gratitudine scodinzolandogli intorno e accovacciandosi presso di lui. Parsifal, infine, felice anche della compagnia rassicurante del leone, si coricò e si addormentò. In sogno vide due donne. Una era   giovane, cavalcava un leone e lo esortò a prepararsi al combattimento. L’altra  era un’anziana, cavalcava un serpente, lo rimproverò di aver ucciso il serpente e gli chiese di diventare suo vassallo. Parsifal rifiutò di aderire a tale richiesta, si svegliò ed essendo turbato per il sogno avuto “si fece il segno della croce  pregando Dio di illuminare la sua anima”. Fu così che vide una nave, coperta di drappi bianchi, dirigersi verso l’isola. Parsifal si avvicinò e sulla nave incontrò un uomo in abiti sacerdotali il quale lo confortò, lo ammonì e gli spiegò il sogno avuto. Dopodiché il saggio ripartì lasciando Parsifal sull’isola.

 

 

La damigella

 

Giunse allora un’altra nave, coperta questa volta da drappi neri. Su di essa Parsifal “vide seduta sul ponte della nave una damigella di grande bellezza, vestita con abiti sfarzosi. Quand’ella lo scorse si levò e senza salutarlo gli disse: “Che fate in questo luogo, Parsifal? Chi vi ha condotto su questa montagna … dove morirete di fame e di noia?” “Damigella” rispose “se morissi di fame non sarei un leale servitore del mio Signore”… Quand’ella intese che Parsifal citava il Vangelo evitò di rispondergli e cambiò argomento. Infine la damigella sedusse Parsifal ed egli stava quasi per soccombere quando, vedendo la sua spada poggiata lì accanto, “intravide una croce vermiglia intagliata sull’elsa e subito si ricordò di sé stesso e si fece il segno della croce sulla fronte”. Anche questa volta la croce che Parsifal aveva tracciato su di sé sventò il piano del Nemico ed immediatamente il padiglione si rovesciò, Parsifal si sentì avvolgere da una nuvola di fumo così spessa che non vide più nulla e da tutte le parti gli arrivò un puzzo così intenso che pensò di essere all’inferno. Allora esclamò “Dolce, buon padre, Gesù Cristo … soccorretemi con la vostra grazia! Altrimenti sono perduto”. E aprendo gli occhi … vide sulla nave la damigella che gli disse “Parsifal, mi avete tradito”. Poi la nave prese il mare inseguita da una tale tempesta che sembrava sul punto di andarsene alla deriva, mentre la superficie delle acque si infiammava di tutto il fuoco del mondo.

 

 

Il Saggio

 

Parsifal, restato solo, afflitto da un’enorme tristezza per il peccato cui stava per soccombere, “sfoderò la spada e menò un colpo così violento che se la infilò nella coscia … Poi ritirò la spada … ma era più addolorato per l’offesa fatta a Dio che per la ferità”. Alzando gli occhi verso il mare, vide allora ritornare la nave drappeggiata di bianco con a bordo il saggio. Quando la riconobbe si rasserenò ricordando le sue buone parole e la sua grande saggezza. … Costui scese a terra … e gli disse: “come ti senti dopo il nostro incontro?” “Come un miserabile, messere; per poco una damigella non mi faceva commettere un peccato mortale”. E gli raccontò l’avventura. Il saggio gli domandò: “La conosci?”. “No, messere: ma so che me l’ha inviata il Nemico …”. “Ah, Parsifal!” disse il saggio, “sarai sempre così candido? … La damigella è il Nemico in persona… comunque sia … d’ora in avanti sta’ in guardia. Se soccomberai ancora, nessuno ti verrà più in aiuto”. Il saggio parlò a lungo ammonendo Parsifal e dicendogli che Dio non lo avrebbe dimenticato, ma che gli avrebbe inviato un soccorso molto presto. Poi gli chiese notizie della ferita. “Da quando siete arrivato” rispose Parsifal “non ho sentito più dolore, come se non fossi ferito. Le vostre parole e la vostra vista danno una tale dolcezza e un tale sollievo che credo voi siate uno spirito piuttosto che una creatura terrena… e, se osassi, direi che siete il Pane di vita che discende dai cieli, il Pane che, chiunque ne mangi degnamente, riceve la vita eterna”. Appena Parsifal ebbe pronunciate questa parole, il saggio disparve misteriosamente e una voce disse: “Parsifal, hai vinto e sei salvo. Sali su questa nave e va’ dove l’avventura ti porta. Non avere paura di nulla perché, ovunque andrai, Dio ti guiderà. Presto vedrai Bors e Galahad, i compagni che desideravi ritrovare”. Parsifal sentì nel cuore una grande gioia e… ringraziò Nostro Signore per tutto il bene che ne riceveva. Poi … salì sulla nave che prese il mare e si allontanò dallo scoglio appena il vento ebbe gonfiate le vele”.

Dopo alcuni giorni di navigazione la nave approda in un porto, Bors sale sulla nave e “così i due amici furono riuniti secondo la volontà di Nostro Signore, in attesa delle avventure che Dio avrebbe inviato loro. … Un giorno Parsifal disse che mancava soltanto Galahad perché si compisse la promesse che gli era stata fatta”.

E così, ben presto, avviene, infatti, poco tempo dopo, la nave tocca terra e Galahad sale a bordo insieme a una damigella che si rivelerà essere Dendraine la sorella di Parsifal. “Bors e Parsifal fecero loro grandi feste i cavalieri si riconobbero e piansero di gioia per essersi ritrovati”.

 

 

Rebora

 

Per comprendere appieno il parallelismo che è possibile porre tra Parsifal e Rebora, è opportuno richiamare alla mente alcuni cenni biografici dell’autore e alcune “note” riguardanti la sua spiritualità e la sua concezione poetica.

 

Cenni Biografici

 

Rebora, nasce in una famiglia totalmente laica e cresce educato dal padre, fervente garibaldino, alla scuola degli ideali mazziniani e progressisti. Dopo gli studi letterari si dedica con passione all’insegnamento, da lui considerato e vissuto come mezzo di formazione integrale della persona e “fucina” per creare uomini integri, capaci di cambiare in meglio la società in cui vivono.

Sempre in quegli anni inizia la sua collaborazione alla rivista letteraria “La Voce” dove, nel 1913, pubblica la sua prima raccolta poetica “Frammenti Lirici” riscuotendo subito un rilevante successo letterario.

Nei suoi versi il poeta riversa tutta la sua ansia interiore, la sua costante ricerca del senso e della verità dell’esistenza. Egli stesso si considerava “un Diogene senza lanterna”. Egli era, come ebbe a definirlo Cigala, “il cercatore di infinito nella profondità delle cose e dell’uomo”.

Comprendiamo, anche solo da queste due semplici notazioni, come Rebora sia (e tale resterà sempre) un “puro di cuore”, teso alla costante ricerca della verità.

È da notare inoltre, come rileva Elio Gioanola, che tra gli autori facenti capo alla rivista “La Voce” e che “testimoniano in versi il tormento profondo dell’uomo alienato ed esposto alle angosce delle estreme domande esistenziali, Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistenza e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura novecentesca”.

Rebora concepisce l’arte come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, ma sempre carica di tensione morale ed esistenziale e la sua “poesia, – dice Gioanola – appare lacerata da un’inquietudine profonda, … Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere”.

Ben presto, la sua fama poetica ed il suo ardente impegno sociale fanno di lui uno stimato conferenziere e un ricercatissimo “ospite” dei migliori salotti della “Milano bene”… ma neppure questo essere “coccolato e vezzeggiato” da pubblico e critica, colma il suo cuore e placa il suo animo inquieto.

Allo scoppio della Guerra vi partecipa, come ufficiale, sul fronte del Carso, riportandone una ferita alla tempia che lascerà in lui duraturi strascichi. 

Alla fine del conflitto mondiale torna all’insegnamento, scegliendo di dedicarsi agli studenti delle serali, dove esplica ampiamente la sua opera di promozione sociale ed umana. Vive nel contempo una vita austera e, come lui stesso dirà di sè, “l’ignoto Battesimo operando”, si sente sempre più attratto dalla religione. Questo lo si nota chiaramente nella sua opera poetica: sia nei “Canti anonimi” sia ne “I sedici libretti di vita” (in cui divulga opere i mistica orientale ed occidentale), traspare questo anelito verso il trascendente.

Decisive per la sua conversione alla fede cattolica sono le figure del Card. Schuster (da cui riceverà il Sacramento della Cresima) e di Rosmini (di cui abbraccerà il carisma nella mistica prospettiva di “patire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell’amore di Dio”).

Il tema dell’amore è “l’asse portante” di tutta la vicenda reboriana. Amore che, prima della conversione, assumeva i toni dell’umanitarismo laico e dell’affetto fraterno verso gli amici, e che, dopo l’incontro con Dio – l’Amore vero – diviene un sentimento profondo di amore a Dio e di ardente carità verso i fratelli, oltre che strumento eccelso di conoscenza della verità e mezzo sicuro per giungere alla vera Sapienza.

Nel 1931 entra nell’istituto rosminiano di Domodossola dove nel ’33 emette la Professione religiosa e nel ’36 viene ordinato Sacerdote. Fu qui, nella vita sacerdotale vissuta all’interno del carisma rosminiano, che dopo una vita vissuta all’insegna della ricerca del vero, come disse di sé lo stesso Rebora nel suo Curriculum Vitae, “dalla perfetta Regola ordinato, l’ossa slogate trovaron lor posto” e l’animo del poeta trovò finalmente la sua pace e la pienezza nell’amore per Dio che si concretizzò nella carità verso i fratelli, carità considerata da Rebora “concretissima attività amorosa”.

Per Rebora, come scrive Ilaria Setti, “vivere nella carità significava, dunque, amare e amando compiere la volontà divina, la quale non chiedeva altro che seguire il precetto cristiano “amatevi l’un l'altro come Dio ha amato voi” (Gv. 15,12) … alla luce di questa certezza anche il suo continuo donarsi ai fratelli era un continuo donarsi a Dio e il suo amore diventava sempre più un morire per gli altri. … Di qui l’importanza – per Rebora – di “svuotarsi di se stesso” per rendersi maggiormente capace, un ritrovarsi in Lui, accresciuti nel Suo amore.

 

 

Rebora novello Parsifal

 

Come abbiamo potuto notare da queste semplici note biografiche, al pari di Parsifal, Rebora trascorre la sua fanciullezza nella semplicità del “bello” umanamente inteso e lontano da ogni ricerca interiore aperta alla dimensione spirituale.

Questo, per Parsifal, si era “concretizzato” nella vita allo “stato naturale” (secondo il “mito del buon selvaggio” teorizzato da Rousseau), immerso nella bellezza naturale della foresta in cui la madre lo aveva fatto crescere. Per Rebora invece, aveva assunto le forme culturali degli ideali laici in cui era cresciuto ed era stato educato (soprattutto dal padre fervente sostenitore degli “ideali mazziniani”).

Entrambi, comunque, conservano un “animo fanciullo”, puro e semplice, libero da ogni grettezza e calcolo. Entrambi si pongono “di fronte al senso della vita” – come ebbe a dire Ilaria Setti parlando di Rebora – con “un estremo bisogno di sincerità, rifiutando palliativi e facili verità”.

Inoltre, come Parsifal passa di avventura in avventura ma solo dopo il colloquio con la zia eremita che lo fa rientrare in se stesso, e dopo il cammino interiore e le varie prove (più interiori che materiali) affrontate, giunge alla purezza spirituale necessaria al raggiungimento del Santo Graal, così Rebora passa di successo in successo (insegnate stimato, conferenziere quotato, ospite ricercatissimo dai migliori “salotti” della “Milano bene”, poeta conosciuto …) restando al contempo “un animo mobilissimo e tormentato” (come ebbe a definirlo Ungaretti), finché non incontrò la fede e si convertì al cristianesimo.

 

 

Percorso poetico e percorso umano

 

Possiamo notare come tutta la poesia di Rebora, anche quella precedente la conversione, sia classificabile come “poesia religiosa”. Questo perché, come nota Filippetti, anche nei “Frammenti Lirici” e ancor più nei “Canti Anonimi”, il senso religioso si esprime proprio come “sproporzione” che si evolve in “domanda” di totalità, mentre gli attimi che scorrono sono come una morsa funerea che aggredisce brandelli di gioia. È Rebora stesso che, in Curriculum Vitae riconosce che “un lutto orlava ogni mio gioire / l’infinito anelando”. Quasi a riprova di questo soggiunge: “ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo: fuori scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo senza Cristo”.

Si può legger qui, quasi in controluce, la consapevolezza espressa da S. Agostino il quale ci ricorda che il cuore umano è fatto per Dio e di conseguenza resta inquieto finché in Lui non riposa. Perciò, in mancanza di questo Dulcis Hospes animae, l’uomo vive quello che S. Tommaso definiva il “desiderio di un bene assente” e che Rebora esprimerà nella sua lirica Scacchi a terra per gli occhi dicendo: “qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo! / E così tutto rimanda / a una segreta domanda … / Nell’imminenza di Dio / la vita fa man bassa / sulle riserve caduche / mentre ciascun s’afferra / a un suo ben che gli grida : addio!”.

L’uomo tende naturalmente a Dio. Consapevolmente o meno, la sua vita è “attesa della sua venuta”. Questo è anche il “tema” della lirica “Dall’immagine tesa”, considerata il capolavoro di Rebora.

La trascriviamo.

 

Dall’immagine tesa

 

“Dall’immagine tesa 

vigilo l’istante 

con imminenza d’attesa 

e non aspetto nessuno: 

nell’ombra accesa 

spio il campanello 

che impercettibile spande 

un polline di suono 

e non aspetto nessuno: 

fra quattro mura 

stupefatte di spazio 

più che un deserto 

non aspetto nessuno: 

ma deve venire; 

verrà se resisto, 

a sbocciare non visto, 

verrà d’improvviso; 

quando meno l’avverto: 

verrà quasi perdono 

di quanto fa morire, 

verrà a farmi certo 

del suo e mio tesoro, 

verrà come ristoro 

delle mie e sue pene, 

verrà forse già viene 

il suo bisbiglio”.

 

Margherita Marchione la considera “la lirica italiana più religiosa e vibrante del nostro tempo” mentre Filippetti la definisce “poesia dell’attesa o meglio dell’Atteso”, in quanto, come ben evidenzia questo autore, “lo spazio, nell’immobilità sospesa e colma di stupore, pare dilatarsi all’infinito. In esso il poeta, che per tre volte ribadisce “non aspetto nessuno”, presente di essere sull’orlo di una rivelazione”. L’“immagine tesa” – rivelerà lo stesso Rebora verso la fine della sua esistenza – è la “mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae”.

Ecco perché, nella seconda parte della lirica, il poeta è certo che Egli “verrà”, anzi, soggiunge, “forse già viene / il suo bisbiglio”.“La voce di Dio – annoterà Rebora negli ultimi ani di vita – è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto”. Così, anche Rebora, come Parsifal, alla fine ha “vinto” e, insieme al senso della sua vita e all’appagamento del suo cuore anelante, ha trovato, in sé, il suo Dulcis Hospes Animae: il suo “Graal”.