Tu sei il Dio che opera meraviglie;

manifesti la tua forza tra le genti”

(Salmo 77,15)

 

 

Una “prova” della sincerità di sr. Virginia, a nostro giudizio, la si può “leggere” anche nel fatto che, lo stesso Cardinal Borromeo, autentico “uomo di Dio” e tutt’altro che sprovveduto in materia, il 21 giugno 1627, cioè pochi giorni dopo aver ricevuto la terza lettera di sr. Virginia (lettera scrittale il 9 giugno e nella quale sr. Virginia, ripresasi da una grave malattia, scrive: “È piaciutto a nostro Signore che vedde la grandissima miseria mia prolungarmi un’ pocho più la vitta a fine che vadi con maggior cognittione et sentimento aparechiandomi per una altra volta a questo passaggio, il che si degni Sua Divina Maestà concedermi per l’infinita sua misericordia”), invia al suo procuratore in Madrid, l’abate Giovanni Battista Besozzo, il quale gli aveva chiesto informazioni circa i fatti di Monza, la seguente comunicazione: “Abbate Besozzo, questa informatione et attestione si dovrà mostrare a tutti i Signori del Consiglio d’Italia, et a qualcheduno più confidente dirgli a parte, che in tanti anni, che governo, successe già 25 anni sono, un disordine in Monza, il quale fu punito con la carcere di dieci sette anni, et che non si nomina la persona per degni rispetti, ma però con l’istessa confidenza se gli potrà dire che questa fu donna Virginia Leva di Casa Leva cugina del principe d’Ascoli, acciocché sappiano chi è. Ma che poi questa medesima che è viva ancora ha cavato tanto frutto da questo fallo, che si può chiamare un specchio di penitenza”.

Ora, nel considerare questa lettera, che il Borromeo invia a Madrid, ci sembra ci sia da notare, innanzitutto, che il Cardinale scrive al suo Procuratore in Spagna, cioè in quella che è la terra d’origine della famiglia De Leyva (dove, com’è logico intuire, la Casata ha molta influenza e potere) e, oltretutto, la sua è una lettera “ufficiale”, destinata, cioè, a ”tutti i signori del Consiglio d’Italia”. Perciò, partendo dalla semplice constatazione che era “rischioso” e “compromettente” per chiunque, parlare di una De Leyva presentandola come una donna rea di gravi crimini (anche se poi, come sottolineato, ampiamente “espiati”), è logico comprendere come questo lo fosse ancor di più per il Cardinale, il quale, in qualità di Arcivescovo di Milano, era stato uno dei principali “protagonisti” della vicenda ed era stato proprio lui, a suo tempo, a spingere Mons. Lancilotti ad emettere, nei confronti di sr. Virginia Maria De Leyva, una sentenza a dir poco “esemplare”.

Perciò, dato che, allo “scoppiare dello scandalo”, la Famiglia De Leyva aveva immediatamente “preso le distanze” dalle vicende di sr. Virginia, fino a giungere a “disconoscerla” (come abbiamo precedentemente visto, stando a quanto dichiara il fratellastro don Luis De Leyva, che cioè “suo padre, don Martino, sposatosi in Milano con Virginia Marino, «no tubò en ella hijos»”) e tenendo presente che lo stesso don Luis, interpellato dal Cardinale al tempo del processo, avrebbe risposto al presule “di non desiderare affatto un processo scandaloso sulla condotta della sorellastra, ma che sia lui come la sua famiglia avrebbero preferito mille volte saperla morta di veleno, ché questo sarebbe stato il solo mezzo per mettere a tacere tutto”, è logico comprendere come, questo “riportare alla ribalta della cronaca” il nome della loro “sciagurata congiunta” (seppure per esaltarne la conversione), non poteva certo costituire, per i De Leyva, “cosa gradita” (oltretutto, dopo così tanti anni, quando cioè, il tempo aveva ormai “smorzato” i “toni” e il “ricordo” di quel “disordine” verificatosi “in Monza… 25 anni sono”).

Il fatto, dunque, che, da Milano, il Cardinale invii una lettera tanto esplicita, non temendo di “esporsi” in prima persona e mettendo in campo tutta la sua autorità civile e religiosa (la lettera era “ufficiale”, scritta in qualità di “Cardinale e Arcivescovo della Diocesi milanese”), significa che egli era ben certo della conversione di sr. Virginia e delle Grazie celesti di cui era stata beneficata dal cielo.

Ben difficilmente, in caso contrario, il Cardinal Borromeo, si sarebbe sbilanciato a tal punto, visto che egli, se da una parte era di un’integrità morale adamantina (e, all’occorrenza, sapeva anche “sostenere la verità” di fronte a chiunque), dall’altra, era anche “figlio del suo tempo”: nato e cresciuto in una famiglia nobile, era avvezzo a trattare coi potenti, e, da fine conoscitore dell’animo umano quale egli era, ne conosceva l’indole “suscettibile” e la conseguente necessità di saper essere, quando si aveva a che fare con essi, anche accorti “diplomatici”.

Con il suo scritto, perciò, il Cardinale, intendeva esaltare e lodare il Signore, “il Dio che opera meraviglie e manifesta la sua forza tra le genti” (Salmo 77,15).