Di spergiuri, di frodi e di inganni ha piena la bocca,

sotto la sua lingua sono iniquità e sopruso”

(Salmo 10,28)

 

 

Quanto detto fin ora sul mutamento di vita di sr. Virginia, appare ancora più rilevante se si tiene conto del fatto che ella aveva, per natura, un carattere decisamente emotivo e - come si rileva da un’analisi grafologica condotta su di uno scritto di sr. Virginia 1596 - “si agitano nel suo animo sentimenti contrastanti come ansia, impressionabilità timori aggressività e soprattutto variabilità di umore che la rendono facile a mutamenti repentini di decisioni e di atteggiamenti. Sovraccarichi emotivi la inducono talora a blocchi e furori nella sua attività logica ed operativa. È in lei un ricco potenziale di energie che, compresse, non le permettono di vivere spontaneamente ed armoniosamente la sua vitalità interiore”.

Un chiaro esempio di questa suo “carattere difficile” ce lo fornisce l’unica lettera pervenutaci, (oltre ad un “editto” per la pesca emanato da sr. Virginia in qualità di feudataria per concedere ai frati del Convento delle Grazie di pescare nel Lambro), tra quelle scritte da sr. Virginia negli anni in cui fu monaca nel monastero di S. Margherita.

Si tratta di una lettera, semi-ufficiale, che sr. Virginia scrive a Prete Paolo Arrigone, per “rinfacciargli” tutte le nefandezze da lui compiute e “preannunciargli” il “giusto castigo” che lei, in qualità di Feudataria, appoggiata anche dalla sua potente famiglia, gli farà presto giungere, ponendo così fine alla sua vita scellerata.

Sono informata - scrive - che come in fame e vituperoso che sette, è arivatto questa tua sfagiatagine […] a componere contra l’honor mio le magiori falsità […] per il che stupiscomene come che dalla clemenza de Dio che havanti che tu ti parti da l’altare, non ti facij sfavilare fuocho et portarti via da cento paia de diavoli, et però sappi per il batesmo santissimo che porto in testa e da quella che sono, che ti voglio fare conoscere da chi non ti conosce […] per quello in fame et scelerato che tu vivi e sempre è statto la tua profesione […] la profesione publica che tu faij de putane e più di godere tre sorelle et procuratto in confesione di fare prevaricare quelle che saij… di tentare anco qui dentro le spose di Giesù Christo, et procurare in tanti modi di machiare l’honore di questo monastero […] “ gli rinfaccia, poi, di essere giunto “a componete […] le magiori falsità” contro di lei “perché io dalla conscienza et dallo offitio che haveva di vicaria mi sono mosa a rompere questi toij disegni disonesti […] et sappi che per mano di mio fratello il quale piacendo a Idio viene voglio che mi daij conto delli parlamenti falsi […] havendo procurato di machiare una casa tanto honoratta come quella da chi dipendo, et sij sicuro che la vendetta e pagamento di questo, non ti venerà maij di altra mano che dalla casa mia […] restando tu quello iniquo et in fame […] che seij et io resterò quella nobile ed honoratta che profeso di esere”.

È da notare che, quando sr. Virginia, in qualità di Vicaria, scrive questa lettera all’Arrigone, onde farlo desistere dalla tresca amorosa che aveva intrapreso con sr. Candida Colomba, dopo che quest’ultima le aveva confessato quanto successo nell’ultimo incontro che aveva avuto con Prete Paolo - siamo nei primi mesi del1604 - è già in gravidanza per la seconda volta.

Ciò nonostante sr. Virginia, in questo scritto, si dichiara “casta e pura”, mostrando, così, non solo di sentirsi “al sicuro da ogni possibile accusa” (in quanto “nobile” ed appartenente alla potente famiglia De Leyva), ma anche una “sfacciataggine” e una “presunzione” oltre ogni dire.

Come direbbe il salmista: “Di spergiuri, di frodi e di inganni ha piena la bocca, sotto la sua lingua sono iniquità e sopruso” (Salmo 10,28).

Il “tono” di questa lettera, come abbiamo detto, esemplifica in modo chiarissimo quanto espresso nella grafoanalisi citata e quest’ultima, a sua volta, spiega egregiamente quella che era stata la travagliata esistenza di sr. Virginia fino al 1608 oltre che il tormentato rapporto amoroso da lei intessuto con l’Osio e vissuto in una continua alternanza di desiderio e rimorso.

Difficilmente, però, quanto sopra, si adatta al comportamento, sempre umile e modesto, che caratterizzò la vita di sr. Virginia “dopo la liberazione” e allo stile epistolare da lei mostrato.

Ben differenti, infatti, da quelli della lettera a Prete Paolo, sono sia il carattere sia la tensione, che qualificano tanto la lettera al Cardinal Borromeo quanto le lettere che, tramite il Cardinale, sr. Virginia indirizza ad una monaca.

Perciò, se la sua conversione non fosse stata autentica, se sr. Virginia, cioè, non avesse realmente avuto, durante la carcerazione, un’autentica “esperienza di Dio”, un mutamento così radicale del suo modo di essere e di agire, sarebbe difficilmente spiegabile se non impossibile.