Cominciamo, allora, a prendere in considerazione i singoli cavalieri e a porre accanto a loro, quali novelli “cercatori del Graal”, alcuni autori letterari che presentano “caratteristiche” ad essi simili, mostrando così come, “la cerca del Graal”, non sia solo una leggendaria impresa del passato ma sia “attualità” che può coinvolgere chiunque.

 

Lancillotto

 

Iniziamo esaminando la figura di Lancillotto uno dei due cavalieri che, sebbene fossero giunti molto vicini al Graal, non ne furono giudicati degni e perciò ne vennero esclusi.

Come abbiamo già visto precedentemente, i romanzi cavallereschi appartenenti al ciclo bretone, ebbero grande successo e diffusione soprattutto negli ambienti di corte dove i temi dei tornei e delle tenzoni, della guerra (per la fede – le crociate – o per il potere temporale – le varie lotte intestine tra i vari signori –) e dell’amore, erano le realtà proprie di quegli ambienti. Non per nulla il motto della cavalleria era : “la mia anima a Dio, la mia vita al re, il mio cuore all’amata, l’onore a me!”

Nell’ambito di tali racconti, la vicenda amorosa di Lancillotto e Ginevra occupa una parte importante ed incontrò grande popolarità grazie proprio al tema in essi trattato: l’onore e il valore cavalleresco del migliore tra i cavalieri della Tavola Rotonda, posti accanto, quasi a sottolinearne il contrasto esistente, con l’amore illecito (Ginevra era la moglie di Re Artù di cui Lancillotto era cavaliere e “vassallo”) che legava i due amanti.

Lancillotto è considerato il miglior cavaliere della Tavola Rotonda, coraggioso e cortese, ha però un lato debole: il suo amore per la regina Ginevra, la moglie di Artù. Tale peccaminosa passione non solo lo priverà della possibilità di giungere a quella perfezione morale necessaria, sia per essere un cavaliere esemplare, sia per poter giungere al Santo Graal (alla cui ricerca si era posto), ma lo porterà a tradire la fiducia del suo Re, cosa che, per un cavaliere, era inammissibile. Sarà anche questa una delle cause che, portando liti e discordie prima di tutto tra Artù e Lancillotto e poi tra i vari cavalieri membri della Tavola Rotonda, decreterà la fine di quest’ultima e, cosa ancor più importante, della realtà profonda, fatta di lealtà, uguaglianza e concordia, ad essa soggiacente. Ma andiamo “per ordine”.

 

 

Cavaliere alla Corte di Artù

 

 Nel “Lancillotto del lago” (opera di autore anonimo che costituisce la parte più lunga del ciclo Vulgato del Graal), Lancillotto, rimasto orfano, viene accolto ed educato da Viviana, la Dama del Lago, (la quale, tra l’altro, è a conoscenza dei segreti di Merlino) che lo conduce nel suo regno dove egli cresce e riceve un’accurata educazione finché, attorno ai 15-18 anni, viene fatto cavaliere da Artù e da lui ammesso a far parte dei cavalieri della Tavola Rotonda, divenendone, ben presto, il migliore, grazie anche alla speciale quanto preziosa educazione ricevuta.

Durante questa sua permanenza presso la corte di Artù, stando alle varie versioni in prosa, le quali, nell’arco della narrazione, pongono in rilievo soprattutto il tema dell’amore adulterino di Lancillotto per Ginevra, Lancillotto, in qualità di cavaliere di Artù, tra le numerose imprese compiute, salva anche la Regina imprigionata nel castello di Meleagant.

 

 

L’amore per Ginevra

 

Nel “Lancelot ou le chevalier à la carrette” di Chrétien de Troyes, Ginevra, rapita da Malgigante, figlio del re di Gorre, viene liberata da Lancillotto, segretamente innamorato di lei.

Per riuscire nell’impresa, però, Lancillotto non solo deve affrontare imprese pericolosissime e ardue fatiche ma deve anche varcare i confini di Gorre, una terra magica da cui nessuno aveva mai fatto ritorno e, soprattutto, deve accettare di “disonorarsi” (ricordiamo quanto fosse importante la salvaguardia del proprio onore per un cavaliere) salendo sulla carretta dei malfattori condannati a morte (è facendo riferimento a questo episodio che Chretien dà il titolo all’intero romanzo).

Nel corso dell’inseguimento, infatti, Lancillotto incontra un nano. “Il cavaliere gli chiede: “Nano, dimmi in nome di Dio se hai visto passare per di qua madama la regina”. Ma quel nano, vile e di ignobili origini, non vuole dargli notizie e dice invece: “Se vorrai montare sulla carretta che conduco, prima di domani potrai sapere cosa è avvenuto della regina”. Il cavaliere esita […]. E fu per sua sventura e vergogna che non vi salì subito, perché più tardi avrebbe avuto a pentirsene e avrebbe giudicato di avere agito male. Ma Ragione, in disaccordo con Amore, gli suggeriva di guardarsi dal montarvi, e lo esortava e lo ammaestrava a non intraprendere un’azione che gli sarebbe forse tornata a onta e a biasimo […]. Ma Amore, che era rinchiuso nel suo cuore, gli ordinava e lo ammoniva di montare subito. Poiché lo vuole Amore, il cavaliere sale sulla carretta e non si cura di provare vergogna: è Amore che comanda e vuole”.

 

 

L’amore cavalleresco e l’amor cortese

 

In questo brano, come si è già capito dalla lettura, è amore il sovrano indiscusso. Al cavaliere è concesso provare turbamento interiore ma non gli è lecito disobbedire ai dettami d’amore.

Sintomatica, di tale situazione, è la scena del primo bacio tra Lancillotto e Ginevra nel “Lancelot de Lac” di autore anonimo.

L’episodio è narrato con gli stessi termini con i quali sarebbe potuta essere descritta una scena di investitura feudale: quella presentata è, dunque, per così dire, una vera e propria “investitura amorosa”.

“Dama!” così dice Galeotto “... abbiate mercé di lui: ché più v’ama che se medesimo...”. […] io ve ne prego per lui … E io vi prego che voi gli concediate il vostro amore, e che lo prendiate a vostro cavaliere per sempre, e diveniate la sua leal dama per tutto il tempo della vostra vita.

[…] Così, fa ella io consento: “ch’egli sia tutto mio, ed io tutta sua, e che per voi siano ammendati i torti e le violazioni dei patti”. “Dama!” fa Galeotto “gran mercé! Ma ora ci vuole un primo pegno. … Baciatelo dunque innanzi a me, per cominciamento di verace amore”. … “Allora si traggono in disparte tutti tre insieme e fan sembiante di prender consiglio. E la regina vede che il cavaliere non osa far più. Allora lo prende ella per le guance e sì lo bacia innanzi a Galeotto, assai lungamente”.

A tale riguardo, significativo è anche il fatto che, secondo una delle varie tradizioni esistenti, era stata la stessa regina Ginevra a donare a Lancillotto, in “ringraziamento” per averla liberata, la spada che poi egli portò sempre con sè: questo è significativo poiché può essere visto come una “premonizione” del legame che unì, in seguito, Lancillotto alla sua regina in quanto, nella cerimonia di investitura feudale di un cavaliere, la consegna della spada era uno dei principali “gesti simbolici” dell’investitura stessa.

Altro brano esplicativo del rapporto che lega Lancillotto alla sua amata regina è il passo in cui è descritto l’incontro amoroso dei due amanti. Vi si legge: “La finestra non è punto bassa, tuttavia Lancillotto vi passa molto presto e molto agevolmente. […] viene al letto della regina, e la adora e le si inchina, poiché in nessuna reliquia crede tanto. E la regina stende le braccia verso di lui e lo abbraccia”.

Emerge, in questo brano, il fulcro stesso dell’amor cortese: la considerazione somma in cui era tenuta la dama, la devozione che diveniva totale dedizione e sottomissione ad essa del cavaliere innamorato e, soprattutto, la supremazia assoluta di Amore, assunto, praticamente, a “religione”.

In questa scena, infatti, come evidenzia Francesca Santucci, Lancillotto appare come “in devozione amorosa, ed il suo inginocchiarsi dinanzi alla sua regina, e regina del suo cuore, si trasfigura in adorazione mistica, come se si trovasse dinanzi ad un altare; nonostante si tratti di una situazione profana (il convegno d’amore, per giunta adulterino), si ha come la sensazione di assistere ad una sacra liturgia”.

Una curiosità significativa a tale riguardo, appare l’origine cui può venir fatto risalire il nome stesso del nostro protagonista.

“Lancelot” secondo una possibile etimologia deriverebbe la sua origine dalla radice latina “ancilla”. Già da questo si può desumere il rapporto di “vassallaggio amoroso” e, quindi servizio, che, era insito nell’ideale cavalleresco. Qui, però, ci troviamo in presenza di un amore “adulterino” che neppure la “morale cavalleresca” del tempo “giustificava” sebbene il “dilemma di coscienza” esistente tra amore lecito e amore illecito, poteva venir a volte “superato” con l’aiuto dell’ideologia comune del tempo, secondo la quale, il “fin’amor” (l’amore cantato dai trovatori e assunto ad elemento costitutivo dell’ideale cortese) esulava quasi sempre dall’amore coniugale poiché, i matrimoni, tra la nobiltà soprattutto, erano generalmente combinati guardando più all’interesse economico e politico che “alle esigenze del cuore”.

Lancillotto, sebbene sia un cavaliere valoroso, fallisce la sua ricerca perché, attratto dal fascino femminile di Ginevra (moglie di Artù), si lascia irretire dalle attrattive mondane e pone l’amore per l’amata al primo posto (posto che dovrebbe, invece, riservare a Dio).

Questa “macchia” che oscura la sua anima, lo renderà incapace, nonostante la sua buona volontà e il suo sincero desiderio di dedicarsi totalmente alla ricerca del Graal, di affrontare positivamente il cammino.

 

 

il cammino di conversione 

 

Lancillotto, però, non persevera nella via dell'errore e, sin dall'inizio della Cerca del santo Graal, si accorge e si pente delle sue colpe e della sua vita passata, trascorsa nel peccato. Seguiamone il percorso di conversione.

Leggiamo infatti che, appena intrapresa la Cerca, una sera, egli cadde addormentato e mezzo sveglio e mezzo nel sonno vide avvicinarsi a lui due cavalli bianchi e belli che trasportavano una lettiga in cui giaceva un cavaliere sofferente. [...] vide un candeliere con sei candele accese avvicinarsi alla Croce senza che riuscisse a vedere chi lo portava. E apparve anche una tavola d’argento e il Sacro Vaso. E il cavaliere sofferente si sedette e stese le mani e disse: “dolce Signore Tu sei in questo Vaso, considera il bisogno in cui mi trovo”. E si mise in ginocchio e baciò il vaso e immediatamente fu risanato ed espresse la sua gratitudine.

Il Graal giunge presso di lui ma i suoi occhi, obnubilati dal “sonno del peccato” non possono aprirsi alla contemplazione. Il Graal scompare e solo allora sir Lancillotto si svegliò e si mise a pensare a ciò che aveva visto, se fosse o no un sogno. Allora udì una voce che disse: “Sir Lancillotto, tu sei più duro della pietra, più aspro del legno e più ruvido della foglia dell’albero del fico: perciò vattene di qui e lascia questo luogo santo…”.

Lancillotto viene allontanato, da questa “voce misteriosa”: una rivelazione divina o forse solo la voce inferiore della coscienza? Non ci è detto e, in fondo, non è molta la differenza. Ciò che conta è che, ora, Lancillotto riprende il camino, ma, diversamente da prima, lo fa cosciente del suo essere ancora avvinto “nel peccato” e, consapevole dei legame che lo lega a Ginevra e da cui egli non si è ancora sciolto, egli quasi dispera di poter giungere a portar fruttuosamente a termine la sua ricerca.

Dopo il sogno realtà del cavaliere guarito dal Graal e le parole misteriose in cui si era sentito definire “più duro pietra, più aspro dei legno e più ruvido della foglia dell’albero del fico”, Lancillotto se ne va sospirando col cuore e lacrimando con gli occhi. [...] Ma non dimenticherà mai più le tre parole con te quali è stato designato. [...]. Comincia a piangere ... e dice: “Ah, Dio, è la conseguenza dei miei peccati e della vita cattiva che ho condotto. Ora capisco che la debolezza mi ha perduto. Quando dovrei emendarmi il Nemico prevale / [...] / Ma non è strano che succeda tutto questo, perché da quando sono stato creato cavaliere non è trascorsa un’ora senza che io non abbia commesso un peccato mortale: sono vissuto nella lussuria e nel male di questo mondo più di chiunque altro”. Per tutta la notte Lancillotto si abbandonò ai rimpianti e alle lacrime. In seguito incontra un eremita che lo ascolta e, saputo che aveva intrapreso la Cerca del Santo Graal senza essersi prima accostato al Sacramento della Confessione, lo invita a confessarsi. Cosa che Lancillotto fa.

Lancillotto non aveva mai confessato a nessuno ciò che era avvenuto tra la regina e lui [...] Sospirò dal profondo del cuore [...] “Messere” disse: “sono in peccato mortale per una dama che ho amato per tutta la vita, la regina Ginevra [...]. È stata lei a pormi in questa condizione così alta e magnifica [...]. È per lei che ho compiuto le prodezze di cui tutto il mondo parla. Ma so bene che per questo peccato Nostro Signore si è molto adirato con me, come mi ha dimostrato ieri sera”.

Raccontò allora come aveva visto il Santo Graal senza muoversi dal proprio posto né per onorario né per amore di Nostro Signore. Dopo aver raccontato tutta la sua vita all'eremita [...] Lancillotto gli riferì te tre parole che la voce aveva pronunciato... chiamandolo tronco, pietra e fico. [...]. L’eremita riflette a lungo poi disse: “[...] Siete stato chiamato più duro della pietra perché tutte le pietre sono dure per natura. [...] La pietra rappresenta il peccatore, il quale è così addormentato nel suo peccato che il suo cuore indurito non può essere ammorbidito né dal fuoco né dall'acqua. Il fuoco significa lo Spinto Santo, [.. ] L’acqua è la parola dello Spirito Santo [...] Infatti Nostro Signore non dimorerà mai dove si trova il Nemico. [...] ti ha mostrato che in te vi è ogni durezza e dove vi è durezza non può esistere dolcezza alcuna, ma soltanto amarezza. Perciò l'amarezza è in te tanto grande quanto dovrebbe essere la dolcezza. Dunque sei simile al legno putrido e morto. Rimane ancora da dimostrare la terza cosa: come tu possa essere più nudo e più spoglio di un fico. Il Vangelo nomina il fico [...] quando Nostro Signore arrivò ... nella città di Gerusalemme [...] sul suo camino incontrò un fico molto bello, tutto pieno di rami e di foglie ma senza frutti. [...] Ora rifletti se non sei anche tu come quell’albero, anzi più spoglio ancora. Quando l’alto Sire arrivò presso il fico trovò delle foglie che, se avesse voluto, avrebbe potuto prendere; ma quando il santo Graal venne a te, ti trovò completamente spoglio di qualsiasi buon pensiero e di ogni buona volontà: eri spregevole, sporco, insudiciato dalla lussuria, senza foglie né fiori, cioè senza ornamentì". Lancillotto, sinceramente pentito della sua vita passata, disse allora all'eremita: "Messere voi mi avete dimostrato che sono stato chiamato giustamente pietra legno e fico [...] E poiché mi avete detto che posso ritornare ancora sulla retta via, mi guarderò bene dal ricadere in peccato mortale.

Prometto a Dio e a voi di non riprendere più fa vita che ho condotto così a lungo, di osservare la castità e di mantenere il mio corpo più puro che potrò”.

L’eremita tenne presso di sé Lancillotto per tre giorni, consigliandogli di comportarsi bene e dicendogli: “Lancillotto, se non starete attento nell'astenervi dal commettere peccato mortale e non abbandonerete i pensieri terreni e le delizie del mondo, invano andrete in questa Cerca. Sappiate che la vostra cavalleria non vi sarà di alcun aiuto se lo Spirito Santo non vi mostrerà la via da seguire in tutte le avventure che incontrerete. Voi infatti non ignorate che la Cerca è un'impresa per conoscere qualche cosa intorno alle meraviglie del santo Graal che Nostro signore ha promesso al Vero Cavaliere, a colui che supererà in prodezza e bontà tutti coloro che venero prima dì lui e che verranno dopo di lui. Il giorno della Pentecoste voi avete visto questo cavaliere [...] Egli è l’uomo prode che sarà da vivo il modello di tutta la cavalleria terrena. E quando avrà compiute tante imprese da non essere più terreno ma spirituale, lascerà queste spoglie ed entrerà a far parte della cavalleria celeste. [...] Il servizio in cui siete entrato non appartiene alle cose terrene ma a quelle del cielo. Perciò colui che vuole impegnarsi nella Cerca e raggiungere qualche perfezione deve dapprima purificarsi di ogni bruttura terrena affinchè il Nemico non possa influenzarlo in alcun modo. Nessuno potrebbe dedicarsi a questo nobile servizio senza aver rinnegato il Nemico e purificato il cuore dal peccato. Ma se la sua fede fosse così povera e debole da fargli pensare che possa servirgli il suo coraggio più che la grazia di Nostro Signore, allora, costui non avrebbe che vergogna e non otterrebbe alcun risultato”.

Lasciato l'eremita, Lancillotto incontra un paggio nella foresta che mostra di conoscerlo e, di conseguenza, non solo biasima Lancillotto per il comportamento avuto quando il Graal giunse presso di lui, ma gli rivolge parole durissime dicendogli: “Non stupitevi se nella Cerca di cui siete entrato a far parte non otterrete che vergogna [...] Non potete sperare altro profitto. Voi foste I fiore della cavalleria terrena. Meschino! Eccovi ora ridotto a un fantasma da colei che non vi ama e non vi stima. Ella vi ha talmente sedotto che avete perduto la gioia, la compagnia degli angeli, gli onori della terra e siete ridotto a subire ogni genere di vergogna!”.

Lasciato il paggio, Lancillotto incontra un altro eremita presso il quale si ferma, aiutandolo, tra l’altro, a seppellire il corpo di un eremita che era stato ucciso il giorno avanti.

Anche quest’eremita, dopo aver appreso che colui che ha di fronte è Lancillotto del Lago, lo dissuade dallo sperare alcun risultato dalla Cerca che ha intrapreso, e gli spiega il perché: “ Voi potete andare in cerca di avventure ma non le troverete perché avete fallito la prova. […].

Lancillotto ti parlo così perché dopo essere caduto in peccato – e ciò è successo dopo che hai ricevuto l’ordine della cavalleria – hai condotto vita cattiva. Ma prima di ricevere l’ordine, ospitavi in te stesso le buone virtù così naturalmente che non vi era giovane di mia conoscenza che fosse pari a te. In primo luogo abitava in te la verginità che non avevi infranto né col desiderio né con gli atti. […]. Oltre a questa virtù possedevi l’umiltà. L’umiltà va dolcemente a capo chino. Così facevi tu quando eri un paggio, quando amavi e temevi il tuo Creatore più di ogni altra cosa e dicevi che non bisogna temere alcuna cosa terrena, ma soltanto colui che può distruggere anima e corpo e gettarci nell’inferno. Oltre queste due virtù possedevi la pazienza. Niente può vincere il Nemico meglio della pazienza. […]. L’eremita elenca, poi, a Lancillotto le altre due virtù che abitavano mirabilmente in lui: la rettitudine, “una virtù che non cambia mai e rende a ciascuno secondo i suoi meriti”, e la carità, che era in lui “una meraviglia”. “In quel tempo – aggiunge l’eremita – il fuoco dello Spirito Santo era in te caldo e ardente. […]. Così provvisto di tutte le bontà e virtù terrene entrasti a far parte del grande ordine della cavalleria. Ma quando il Nemico […] ti vide così ben armato […] capì che […] solo per mezzo di una donna e non con altro sistema sarebbe riuscito a farti commettere il peccato mortale. […]. Entrò allora nella regina Ginevra, che dopo il matrimonio non si era più confessata bene e la spinse a guardarti con tale piacere che tu andasti nella sua casa il giorno che fosti creato cavaliere. Quando ti accorgesti che la regina ti osservava cominciasti a pensare a lei e in quell’istante il Nemico ti colpì così forte con uno dei suoi dardi che ti fece vacillare. E vacillasti talmente che abbandonasti la retta via. […]. Quando il Nemico […] seppe che peccavi mortalmente con il pensiero entrò completamente in te e cacciò Colui che avevi albergato per così lungo tempo. […]. E cacciasti tutte le virtù per accogliere il loro contrario. Tuttavia nostro Signore ti aveva donato una tale abbondanza di beni che qualcosa doveva pur restarne. […].

Pensa a tutto ciò che avresti potuto fare se avessi conservato le virtù che Nostro Signore ti aveva donato […] però non sei ancora così perduto da non riuscire ad ottenere il perdono se chiederai misericordia con tutto il cuore a Colui che ti aveva così ben dotato per il suo servizio”.

Lancillotto si ferma presso l’eremita un intero giorno. La mattina successiva, quando si accinge a ripartire, l’eremita, come penitenza, gli impone di non magiare carne e non bere vino durante tutto il tempo che trascorrerà nella Cerca del Santo Graal e di portare il cilicio che era appartenuto all’eremita morto. “Vi farà del bene – spiega l’eremita a Lancillotto – se l’avrete su di voi, non peccherete mortalmente, e tutto ciò vi darà una grande sicurezza”.

Dopo aver ripreso il cammino “Lancillotto arrivò al fiume Marciose” e qui si accorge di non poter proseguire il cammino, poiché da un lato vi era la foresta, vasta e senza sentieri dall'altro due rocce scoscese; e dal terzo il fiume che era profondo e nero. Egli decise perciò di aspettare la grazia di nostro Signore senza muoversi, e rimase così fino a notte. [...] Si coricò e disse le preghiere che sapeva chiedendo a Nostro Signore di non dimenticarlo e di inviargli i soccorsi di cui aveva bisogno il suo corpo e la sua anima. Poi si addormentò. Il Signore, non solo non lo abbandonò, infatti nel sonno intese una voce che diceva: “Lancillotto alzati e prendi le armi e Sali sulla prima nave che troverai”. Lancillotto trasalì, aprì li occhi [...] si raccomandò a Nostro Signore, [...] guardò verso il fiume e vide una nave senza vele né remi; si avvicinò e appena fu salito a bordo, credette di sentire tutti i profumi del mondo. [...] Inginocchiato sul battello disse: “dolce padre Gesù Cristo, tutto ciò non può venire che da Te. Il mio cuore è così felice che non so più se sono in terra o nel Paradiso terrestre”. Si appoggiò al bordo della nave e si addormentò felice. Al suo risveglio, si accorge che a bordo non c'è nessuno se non un magnifico letto su cui è adagiato il corpo senza vita di una bellissima fanciulla. Da uno scritto posto al capezzale del letto Lancillotto viene a sapere che la dama è Dindraine, la sorella di Parsifal e viene a conoscerne sia la vita integerrima e castissima da lei condotta sia la nobile causa della sua morte (aveva sacrificato la sua vita per salvare un'altra dama affetta da lebbra). Lancillotto si rallegrò della presenza di quella "santa fanciulla" e, ringraziatene il Signore, promise di condurre tuta la sua vita futura nella purezza di cuore e di corpo, onde essere degno della di lei compagnia”.

Lancillotto rimase a bordo della nave più di un mese. [...] Infine, Lancillotto, a bordo della nave, giunge nei pressi del castello di Corbenyc, il castello ove si trovava il Santo Graal.

Lancillotto sceso dalla nave, entrò nel castello, attraversò le varie sale, senza incontrare nessuno, e giunge presso la porta della cappella. Lancillotto, sentendo un canto dolcissimo provenire dall'interno, cercò di entrarvi ma la porta era chiusa.

Intuendo che il santo Graal era lì dentro, si inginocchiò e pregò: “Mio dolce Padre Gesù Cristo, se mai ho fatto cosa a te gradita, Signore mio, non rifiutare nella tua pietà di mostrarmi qualcosa di ciò che mi auguro di vedere”. “Dopo aver detto queste parole Lancillotto vide la porta della camera aprirsi e uscirne un chiarore grande come se dentro vi fosse stato il sole”. Lancillotto fece per entrare ma una voce lo fermò proibendoglielo. Lancillotto, allora, fermo sulla soglia, guardò all'interno della camera, “guardò nel centro e vide una tavola d’argento e il sacro Vaso coperto di sciamito rosso e circondato da molti angeli [...] E davanti all'altare vide un uomo in abito sacerdotale e gli parve che stesse celebrando la Messa [...] e sembrò a Lancillotto che vi fossero altri tre uomini e due affidassero il più giovane alle mani del sacerdote che lo alzò in alto [...] E Lanciotto si meravigliò che il sacerdote potesse sostenere un tale peso e poiché nessuno si avanzava per aiutarlo [...] egli entrò nella cappella e si avvicinò alla tavola d'argento [...] e allora sopravvenne un gran soffio di vento misto a fuoco che lo investì con tanta forza che egli cadde a terra senza poter alzarsi e perdette l’uso delle membra, dell’udito e della vista”.

È così che egli, giunge sì al Graal, e per un attimo ottiene anche la Grazia di vederlo. A questo punto, però, il Graal scompare quasi immediatamente dalla sua vista ed egli, colpevole di essersi macchiato di una relazione amorosa illecita (quella con Ginevra), cade a terra investito da questo impetuoso vento di fuoco (simbolo della passione d'amore da cui si era lasciato travolgere). In quello stato, Lancillotto, sebbene subito soccorso dagli abitanti del castello, resta per ben ventiquattro giorni.

Al suo risveglio, dopo aver appreso quanto successo, ovvero il suo essere stato “sospeso tra la vita e la morte”, cioè, vivo ma immobile e senza dare alcun segno di vita, per ventiquattro giorni, Lancillotto spiegò ai suoi interlocutori che fu “a causa della slealtà che Dio scoprì” in lui che egli perse “// potere degli occhi e del corpo” e “poiché era rimasto ventiquattro ani al servizio dei Nemico, Nostro Signore per penitenza lo aveva privato del potere delle sue membra per ventiquattro giorni”. Egli poi narra ai suoi interlocutori, la grande grazia ricevuta di aver potuto vedere “meraviglie così grandi e felici che la ... lingua non saprebbe raccontare né il ... cuore saprebbe capire. Infatti non erano cose terrene ma spirituali”.

 

 

Una lettura alternativa: il cammino della Grazia

 

Ma facciamo un passo ulteriore e proviamo a considerare la storia di Lancillotto “da un altro punto di vista”, quello più spirituale dell’analisi della vicenda interiore del personaggio in questione.

La vita di Lancillotto e la sua infanzia in particolare, possono essere lette anche come simbolo dei doni di Grazia che Dio elargisce all’uomo. Spetta poi all’uomo rispondere alla Grazia e “far fruttificare” i doni ricevuti.

Lancillotto viene cresciuto da Viviana, la fata buona del lago.

Viviana, proprio in qualità di “Dama del Lago”, è colei che, abita, quasi “signora”, la meravigliosa terra del Lago, è a conoscenza dei segreti di Merlino (che può essere visto come il simbolo della profezia. Non dimentichiamo che il “Merlino storico”, di cui abbiamo parlato la prima volta, non era altri che un bardo esperto di testi profetici) ed è la custode di Excalibur, la spada simbolo della regalità legittima.

Non solo. Ella è anche la custode e la dispensatrice, perciò potremmo definirla forse la “sacerdotessa”, dei segreti delle acque lacustri.

Notiamo che, le acque del lago, sono “acque dolci” (non acque salate come quelle del mare, la cui immagine, normalmente, è usata come simbolo del male) e che, come ci ricorda il catechismo della Chiesa Cattolica, “Fin dalle origini del mondo l’acqua, questa umile e meravigliosa creatura, è la fonte della vita e della fecondità. La Sacra Scrittura la vede come “covata” dallo Spirito di Dio: [cf Gen 1,2] Fin dalle origini lo Spirito si librava sulle acque perché contenessero in germe la forza di santificare [Messale Romano, Veglia pasquale: benedizione dell’acqua battesimale]”.

Tutto ciò ci riporta, quindi, al Sacramento del Battesimo in cui l’uomo viene “consacrato” sacerdote, re e profeta. Ed è un po’ questo che avviene anche nell’educazione che Lancillotto riceve nella magica e paradisiaca terra incantata in cui la dama del Lago lo cresce. Come abbiamo visto, però, Lancillotto, divenuto cavaliere, in un primo tempo almeno, “fallisce il colpo” e come il figlio minore della parabola evangelica, dissipa il patrimonio di Grazia ricevuto lasciandosi irretire dall’amore per Ginevra e soggiacendo così al peccato di adulterio, di cui si macchia, si troverà privato della possibilità di giungere e stare alla presenza del Graal. Ma, proprio come il figlio prodigo alla fine rientra in sé stesso, riconosce il proprio errore, si pente sinceramente e ritorna alla “casa del Padre” concludendo la sua esistenza terrena “in concetto di santità”.

Secondo una leggenda diffusa, infatti, Lancillotto lasciò il mondo della cavalleria e si ritirò in un luogo solitario per dedicarsi ad una vita eremitica, fatta di preghiera e penitenza, completamente dedicata a Dio, e morì “in concetto di santità”.

Quanto detto a proposito delle vicende vissute da Lancillotto può benissimo essere applicato a anche a molteplici personaggi realmente esistiti.

Molteplici sono, ad esempio, gli autori letterari che, nell’arco della loro vita si lasciarono concupire dalle grazie femminili e che, consapevoli del loro errore, non riuscendo a “staccarsene” per ridonare a Dio il loro cuore, ne soffrirono intimamente in modo profondo. Basti per tutti, l’esempio del Petrarca.

 

 

 

Petrarca

 

Come Lancillotto, anche Petrarca, almeno così lascia presumere la stupenda preghiera alla Vergine che conclude il suo Canzoniere, “lascia”, per così dire, la vita giovanile, in cui l’amore per Laura dominava ogni suo intimo palpito e si rivolge a Dio “votandosi” a un’altra “dama” che diviene regina del suo cuore: la Vergine Santa appunto.

Analizziamo l’assonanza esistente tra il percorso interiore compiuto da Lancillotto e le vicende di Petrarca prendendo in considerazione la composizione poetica sopraccitata.

Petrarca come ogni buon cavaliere, dichiara alla Madonna, che è amore che lo spinge a parlare ma, questa volta, si tratta di un Amore con la A maiuscola che ha la sua origine in Dio stesso.

“Vergine bella, – dice – amor mi spinge a dir di te parole”. Ammette però subito che “dir parole” su di Lei è compito troppo arduo per il semplice intelletto umano. Perciò soggiunge: “ma non so 'ncominciar senza tu' aita”.

Il motivo, per cui si rivolge a Lei e a Lei sola, è presto detto: “Vergine, s’a mercede / miseria estrema de l’umane cose / già mai ti volse, al mio prego t'inchina; / soccorri a la mia guerra, / ben ch’'i’sia terra e tu del ciel regina”.

Petrarca nel guardare alla Vergine, la contempla nel suo essere innanzitutto “amorevole soccorritrice” di chi la invoca e a tal fine la invoca con tutto l’affetto e la confidenza di cui il suo animo è carico per sua stessa natura.

Petrarca, infatti, era profondamente incline all’affettività: il bisogno di amare e di essere amato, era in lui insopprimibile e di conseguenza, i suoi rapporti umani furono sempre autentici e profondi e l’amicizia per lui fu “cosa sacra”. Ce ne dà conferma Wilkins che, a questo proposito, scrive: “Il Petrarca e sua madre furono legati da un affetto profondo… L’amore che Francesco e suo fratello nutrirono l’uno per l’altro superò di intensità il comune affetto fraterno… egli (il Petrarca) parla del genero non solo come del suo erede, ma come di un figlio amato… Mai nessun altro uomo formò e coltivò una più ricca riserva di amicizie… Sempre volle che i suoi amici fossero anche amici tra di loro… Non c’era nulla, all’infuori di una comprovata indegnità, che potesse indurlo a venir meno ad un’amicizia… Il Petrarca era oltremodo lieto quando gli era possibile godere della effettiva compagnia degli amici. Per mezzo della memoria e dell’immaginazione anche gli amici lontani li sentì sempre accanto a sé.”

Fu proprio questa sua inclinazione all’affettività, vissuta a volte quasi come “un assoluto”, unita e nello stesso tempo sentita dal poeta come contrapposta all’attrazione che egli provava verso la “vita dello spirito” (non dimentichiamo che Gherardo, il fratello che egli tanto amava, si era fatto monaco e Petrarca ebbe così modo di “sperimentare” quasi in prima persona – tanto era l’affetto che univa i due fratelli – la gioia e la pace interiore che simile vita portava in sé), a creare in lui la base di quell’intima divisione che sempre avvertì in sé tra gli affetti terreni e quelli spirituali e che genererà in lui un’idea “cupa” della religione, portandolo a viverla più come una serie di norme e precetti che come esperienza interiore profonda. “Veggio il meglio – scrive infatti al termine della canzone I’vo pensando – et al peggio m’appiglio”.

Ma di Maria, Petrarca ha piena fiducia, anche perché, per il poeta, Maria è per così dire “l’anti- Laura”. Laura è, nella mente e nelle opere del poeta, l’incarnazione dei suoi “attaccamenti terreni”, il simbolo delle sue “debolezze affettive”. Maria, al contrario, è il “saldo scudo delle afflitte genti contr’a’ colpi di Morte e di Fortuna, sotto ‘l qual si trionfa”, Colei che sola può far sì che “il pianto d’Eva in allegrezza torni” .

Perciò Petrarca insiste e quasi come “captatio benevolentiae”, sapendo di andare così facendo a “toccare il lato debole del cuore materno di Maria”, accortamente soggiunge: Ricordati che fece il peccar nostro prender Dio, per scamparne, umana carne al tuo virginal chiostro”.

A questo punto, il Petrarca ha aperto totalmente il suo cuore alla Vergine. Non si vergogna di confessarle il suo triste stato: “quante lacrime ho già sparte, / quante lusinghe e quanti preghi indarno” non nascondendo la causa della sua miserrima condizione interiore. Aggiunge, infatti: “pur per mia pena e per mio grave danno! / Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno, / cercando or questa ed or quell'altra parte, / non è stata mia vita altro ch'affanno; / mortal bellezza, atti e parole m’ànno / tutta ingombrata l’alma.”

La confessione del Petrarca, è qui completa e profondamente sincera, anche se – nota il Spegno – “la confessione, pur insistente ed estesa e approfondita fino allo spasimo vien fuori ancora tutta chiusa e corazzata, avvolta in un velo di classica dignità”, in quanto – come soggiunge il noto critico letterario – “Proprio dove tocca i punti più amari, le piaghe più dolorose della sua vita, il Petrarca ha bisogno più che mai del sostegno di una tradizione … che valga ad esaltare la sua sofferenza e a conferirle una funzione simbolica… attraverso la quale … l’esperienza umana può riconoscersi e trasfigurarsi in poesia”.

Il Canzoniere stesso ruota tutto attorno a questo dilemma interiore. Quello che il Petrarca esprime nel susseguirsi dei 366 sonetti del Canzoniere è, come direbbe S. Bernardo, “il dramma intellettuale di un umanista in cerca di una giustificazione morale per un amore proibito da ragioni spirituali”. Petrarca, in altre parole, vorrebbe riuscire a conciliare e mettere insieme la gloria terrena (il cui simbolo è il Parnaso) e quella celeste (simboleggiata dal Calvario). Questo gli riesce impossibile in quanto, come ammonisce S. Agostino nel Secretum, l’errore è quello di anteporre la creatura al Creatore. Di conseguenza – ammonisce S. Bernardo – “la corona di alloro (cioè l’amore per i beni e gli affetti terreni) e quella di spine (l’amore per Dio) restano inconciliabili finché il poeta non smette di riguardare le cose all’inverso”.

Ma, in fondo, anche il poeta stesso è consapevole di ciò, dato che non tralascia di riconoscere onestamente che: “Medusa e l'error mio m’àn fatto un sasso d'umor vano stillante”.

Petrarca, paragonando Laura a Medusa (una delle tre Gorgoni che, stando alla mitologia classica, pietrificava chiunque la guardasse), sembra qui voler quasi “demonizzare” l’amore umano (Laura, infatti, a differenza della Beatrice dantesca, non assumerà mai i connotati della “donna angelicata” che conduce l’uomo sulla strada verso Dio). Petrarca (a differenza di Dante che, dopo la morte di Beatrice, affida a quest’ultima la funzione beatificante di essergli guida verso il cielo) sente e vive il suo amore per Laura come peccato, sempre e comunque.

Perciò si rivolge alla sua Dama celeste e la supplica dicendole: “tu di sante lagrime e pie adempi 'l meo cor lasso”, affinché “almen l'ultimo pianto sia devoto, senza terrestro limo come fu 'l primo non d'insania voto”.

Il poeta è però ben conscio anche del fatto che tale mutamento sarà possibile solo con il soccorso della Grazia che è consapevole di poter ottenere ormai solo attraverso la mediazione premurosa e materna di Maria. Perciò conclude la sua accorata supplica alla Vergine Santa dicendole: “raccomandami al tuo Figliuol, verace omo e verace Dio, ch’accolga ‘l mio spirto ultimo in pace”.

E allora iniziamo anche noi il cammino consapevoli, come Lancillotto, di aver ricevuto un tesoro di Grazia ed eleggendoci, come Petrarca, una “dama” con la “D” maiuscola: la Vergine Santa. Preghiamola di essere lei stessa a “rivestirci” con l’armatura più appropriata e di accompagnarci nel viaggio. Così facendo, iniziando cioè il viaggio in compagnia di Maria, saremo già “sulla buona strada” … starà poi a noi … non lasciare la sua mano e non smarrirci lungo il cammino lasciandoci attrarre da illusorie e fallaci chimere.