“Non ti erano nascoste le mie ossa

quando venivo formato nel segreto,

intessuto nelle profondità  della terra.” 

(Salmo 139.15)

 

Dopo la morte di Virginia Marino e la lettura delle sue ultime volontà, il testamento viene immediatamente impugnato dalle sorelle di Marco Pio (qualcuno sostiene anche dallo stesso don Martino) che chiedono un inventario dei beni. Grazie a questo “scruplosissimo inventario”, che ci descrive ogni cosa nel minimo dettaglio, veniamo a saper che a palazzo Marino vi era una culla con “copertura di grogran goernito di un pasaman di setta biancha foderata di sandal biancho”. Il corredo della bambina comprendeva anche “tre patelli di panno rosso, tre lanzoletti, tre orletti, sei patelli, e più doi lanzoletti di cambraja goerniti di un lavor di refo fatto a osso”. Questa culla non può che essere quella dell’infante Marianna e prova che Marianna soggiornò a palazzo Marino almeno fino alla morte della madre ma quasi certamente anche dopo, e molto probabilmente fino al suo ingresso in Monastero (sia che esso sia avvenuto in età infantile come alcune fonti sostengono –secondo questa tesi sarebbe quindi entrata prima come educanda e poi come monaca- sia che tale ingresso sia avvenuto nell’età adolescenziale direttamente come aspirante monaca, come sostengono altre fonti, ritenute, tra l’altro, “più attendibili”). 

La causa riguardante l’eredità Marino, intanto, prosegue,  e nel 1580, il padre di Marianna accetta  un compromesso con le sorelle di Marco Pio: di 12 parti dell’eredità, 5 vanno a Martino e alla figlia, 7 ai figli di primo letto. Già questo si può ben considerare “un furto” nei confronti della piccola Marianna; ma il padre non si ferma qui.

Secondo il racconto del Manzoni, Gertrude è destinata al chiostro fin dalla nascita. Leggiamo, infatti:“…Essa era l’ultima figlia del principe***‚ gran gentiluomo milanese‚ che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alto opinione che aveva del suo titolo‚ gli faceva parere le sue sostanze appena sufficienti‚ anzi scarse. a sostener decoro… Quando venne alla luce‚ il principe suo padre‚ volendole dare un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro…‚la chiamò Gertrude.Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi…devi essere‚ in ogni cosa‚la prima del monastero…”  ( A.Manzoni – I Promessi Sposi – cap. IX)

Come anticipato sopra, però, così non sembra essere stato nel caso di Marianna. Prova di ciò è  una lettera del padre (del 1686) in cui egli parla della dote di Marianna, riguardo ad un eventuale matrimonio, che dovrebbe ammontare a 7000 ducati, pari a 33860 lire imperiali).

Con tutta probabilità, il “cambiamento di prospettiva” avviene nel 1588 quando il padre si risposa con una nobildonna spagnola -Anna Viquez De Moncada- e Marianna diventa “scomoda” per don Martino (sia per quanto riguarda la sua nuova situazione familiare che, forse soprattutto, per le sue mire “carrieristiche” e … “pecuniarie”). Ecco allora la decisione di destinarla al chiostro (dotandola di una dote di 6000 lire imperiali: l’ulteriore “furto pecuniario” perpetrato dal padre ai danni della figlia è dunque, apparentemente, di 27860 … in realtà totale in quanto il padre non verserà nemmeno questa cifra al notaio cui avrebbe, stando agli accordi, dovuto consegnarla in deposito). Mariana entra dunque in monastero con una promessa di dote ma “ereditando”, in realtà, solo il nome della sua illustre casata (come il Manzoni stesso, nel Fermo e Lucia, farà laconicamente e amaramente dire a Geltrude: "Ho appreso dai miei antenati a non negare la mia protezione a chiunque la meriti: io non ho da essi ereditato che il nome; e son lieta che anche questo possa almeno essere buono a qualche cosa”).

Anche se inizialmente il destino di Marianna non combaciava con quello della Geltrude manzoniana, non molto difforme doveva essere il padre di Marianna da quello di manzoniana memoria  di cui Manzoni ci fornisce una “superba descrizione” nel Fermo e Lucia. 

Scrive infatti il nostro autore: “Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non di figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi doveroso; giacché riguardava come il primo dovere del suo stato il conservarne l'opulenza, e lo splendore: erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione. Una figlia nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in un chiostro, perché il chiostro non lo poteva fuggire”.

In questa ottica va vista anche l’educazione religiosa che Geltrude (e quindi anche la nostra Marianna) dovette ricevere.

Marianna trascorre i primi anni a Palazzo Marino, nella più totale assenza degli affetti familiari, affidata alle cure di una balia (certa Vittoria, alla quale, donna Virginia, nel suo testamento, aveva lasciato in eredità un legato di 25 scudi d’oro, probabilmente al fine di “obbligarla moralmente” a  prendersi cura della piccola Marianna) con la “sovrintendenza” della zia paterna, donna Marianna De Leyva Soncino, donna terribile e di una religiosità oltremodo bigotta quanto autoritaria (basti dire che obbligò un figlio a divenire Carmelitano e, in punto di morte fece giurare al marito di abbandonare tutto e tutti per farsi cappuccino, a prendere il nome da religioso di Ambrogio e a  recarsi  in Marocco e in Algeria a predicare il Vangelo, nelle terre di missione, ai “miscredenti”).

Non stupisce , perciò, venire a saper che tale zia rifiutò di allevare direttamente lei la nipote, per il solo motivo che, avendo ella solo figli maschi, non riteneva “cosa moralmente accettabile” che una fanciulla, per quanto infante (non dimentichiamo infatti che, alla morte della madre, Marianna aveva 1 anno!) crescesse “in promiscuità” con i suoi figli.

Il padre stesso di Mariana, don Martino De Leyva, sebbene perennemente impegnato nelle varie campagne militari, e quindi lontano dalla figlia e totalmente assente sia dalla sua vita affettiva che dalla sua educazione, ci tenne affinché l’educazione della figlia fosse imperniata sulla “Fede (viste le “premesse”, c’è da chiedersi quale “fede”) e Spagna” poiché, sentenzierà don Martino, “nascendo da padre spagnolo dovrà sempre considerarsi tale”. 

Eppure, nonostante questo “deleterio clima familiare”, anche Marianna può far sue le parole del salmista e così pregare: “Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto,intessuto nelle profondità  della terra.” (Salmo 139.15), poiché nulla al Signore era nascosto di ciò che la bambina andava vivendo e di ciò che per lei si preparava.

Ma qual’era la “religione” insegnata a Marianna?

Sempre il Manzoni, parlando di Geltrude (ma le medesime considerazioni valgono appieno anche per Marianna De Leyva)  ci informa, poi, che: “quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni, e vincerle con una dolcezza superiore d'assai a quella che le passioni soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti, non era stato mai istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il suo intelletto era stato nodrito di pensieri opposti affatto alla ReligioneMa, come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il padre principalmente, che aveva destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe stata inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra sè e sè questa obbiezione, che forse Geltrude (ma come dicevamo poc’anzi, possiamo tranquillamente leggervi anche il nome di Marianna) non vi sarebbe stata inclinata: caso difficile, ma non impossibile; e contra il quale era d'uopo premunirsi. Supponendo adunque che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto rimanervi, bisognava trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per non usare della semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso, e che poteva lasciar qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non desiderava che la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse monaca. Il Marchese Matteo ( nel nostro caso don Martino) non era uomo di teorie metafisiche, di disegni aerei: non aveva perduto il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un uomo di pratica, quel che si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere da essi gli effetti di una perfezione ideale; e che senza l'interesse l'uomo non si determina a nulla in questo mondo. Così per prevenire all'interesse che il secolo poteva offrire a Geltrude, egli si era studiato di far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio claustrale”.

La piccola Marianna cresce in un clima in cui la Religione e la fede sono viste e vissute come una serie infinita di formalistiche pratiche, di consuetudini e precetti morali e sociali che si intersecano ed influiscono “tout court”. Il rapporto con Dio è dunque freddo, impersonale e “distanziato”. La “Ragion di Stato” (ovvero i doveri del censo) è il cardine portante attorno al quale Marianna vede ruotare tutta l’esistenza della sua blasonata famiglia.

C’è da chiedersi, dunque, quale idea avesse di Dio la nostra piccola Marianna. Pensando a Dio, la nostra infelice non avrà certo avuto dinanzi agli occhi dell’anima, la figura di un Dio Padre buono che ama e ha cura dei suoi figli. 

Date queste “basi” educative, lo sviluppo della costruzione della coscienza religiosa della nostra fanciulla non potrà dunque che essere precario e soggetto all’influenza dei “molti venti… ed eventi”.