Giorno e notte pesava su di me la tua mano,

come per arsura d'estate inaridiva il mio vigore”.

(Salmo 32, 4)

 

 

Il 23 aprile 1608, il Vicario Criminale Gerolamo Saraceni, lascia il posto a Mons. Mamurio Lancilotti. Le motivazioni, supposte ed avanzate per giustificare tale sostituzione a processo avviato, sono sostanzialmente due (e, probabilmente, entrambe concorsero ala decisone presa dal Cardinale): 1) il necessario intervento di un incaricato del Sant’Uffizio per dirimere e giudicare, il presunto caso di eresia che la calamita battezzata aveva posto in campo: per economia processuale, onde evitare una duplicità degli atti, era più ragionevole e comodo che l’intero processo fosse preso in mano da un’unica persona, assommante in sé entrambi i poteri giudiziari: quello del foro della Curia milanese e quello del foro del sant’Uffizio. 2) Il timore che il Vicario “locale” potesse venir influenzato, nell’emettere la sentenza (che il Card. Borromeo desiderava “esemplare”), dall’importanza (e quindi dall’influenza) delle due famiglie in causa (sebbene i De Leyva, come vedremo in seguito, si disinteresseranno completamente della sorte di sr. Virginia: non solo, infatti, non intervengono né per difenderla né per ottenere, a sentenza pronunciata, una mitigazione della pena, ma disconoscono persino sr. Virginia come appartenente alla loro casata).

Sr. Virginia è, ora, rinchiusa nel monastero milanese di S. Ulderico. Isolata, disonorata e diffamata, è abbandonata da tutti (non dimentichiamo che delle sue quattro amiche, una è morta, le altre tre sono anch’esse agli arresti; mentre l’Osio, sulla cui testa pende una condanna a morte e una favolosa taglia, è fuggiasco nel bergamasco). Lasciata, dunque, sola, ha modo di rientrare in sé stessa. Il suo peccato le è sempre dinanzi e sente che il Signore “Giorno e notte pesava su di lei la sua mano” e “come per arsura d'estate inaridiva il suo vigore” (cfr Salmo 32,4), ma si rende, al contempo, conto che, così facendo, il Signore la sta purificando “come oro nel crogiuolo” e le sta dando modo di ravvedersi, convertirsi ed iniziare una vita nuova, rinnovata dall’Amore e dalla misericordia di Dio.

Di fronte a questa situazione, i De Leyva (i quali, come anticipato, mirano esclusivamente a salvaguardare il “buon nome della famiglia”), pur di raggiungere tale scopo, si dimostrano “pronti a tutto” Infatti, non solo “disconoscono la loro congiunta, al punto tale che, come ci informa Paccagnini, “per la nobile casata spagnola sr. Virginia è peggio che morta: non è mai nata. Scrive, infatti, il fratello don Luis De Leyva … che suo padre, don Martino, sposatosi in Milano con Virginia Marino,«no tubò en ella hijos»”, ma, seppure informalmente e velatamente, lasciano intendere che, un “avvelenamento”, sarebbe per loro l’unica soluzione “onorevole” per “risolvere il caso”. Stando al Mazzucchelli don Luis De Leyva, fratellastro di sr. Virginia, venuto appositamente a Milano, durante un colloquio col Card. Borromeo avrebbe esplicitamente detto “di non desiderare affatto un processo scandaloso sulla condotta della sorellastra, ma che sia lui come la sua famiglia avrebbero preferito mille volte saperla morta di veleno, ché questo sarebbe stato il solo mezzo per mettere a tacere tutto”.

Il Tribunale Diocesano, nel comunicare, il 17 ottobre 1608, a sr. Virginia, la condanna espressa su di lei, deve aver probabilmente tenuto conto anche di questo “suggerimento implicito” espresso da don Luis se, al momento di convocarla per leggerle la sentenza (forse, appunto, nel timore che qualcuno potese mettere “in atto” sì nefasto proposito), gliela notifica al monastero del Bocchetto, anziché a S. Valeria, dove ella si trovava già dal 25 Settembre dello stesso anno.

Di fronte alla sorte di sr. Virginia Maria, ormai “diffamata” e “imprigionata” nel monastero milanese delle benedettine, Gio Paolo assume un comportamento diametralmente opposto a quello dei De Leyva.

A differenza dei congiunti di sr. Virginia, l’Osio continua a seguire, con attenzione ed apprensione, il caso dell’amata e, dal suo “nascondiglio”, cerca, nell’unico modo a lui ormai possibile, di aiutarla, facendo giungere, in data 20 dicembre 1607, al Cardinal Borromeo, un’accorata lettera In cui tenta di scagionare, più che sé stesso, l’amata, attribuendo la colpa di tutto quanto è accaduto, alla perversione di sr. Ottavia e sr. Benedetta.

Scrive, infatti: “Il caso è degno di grandissima compassione a saper il fatto com’è seguito … perché la povera signora Virginia Maria ed io siamo stati menati in trappola dalle altre viliache, le quali avanti sian andate nel Monastero, hanno il mondo provato, e piene di ogni malizia andavano investigando di far cascare altri. La colpa non è stata di detta sr. Virginia Maria, la quale di gran Casa, l’animo in altro aveva che alle cose mondane, come per la sua conscienza sia conossuta: ma Ottavia e Benedetta erano quelle che il mal facevano e, come tali, Dio le ha castigate come meritevoli ”.

La lettera, anche se, per quanto riguarda lo scopo per cui era stata scritta, non sortirà effetto alcuno (verrà semplicemente allegata agli atti processuali), è tuttavia degna di nota, in quanto testimonia come l’amore di Gio Paolo per sr. Virginia fosse autentico e profondo.

Essendo ormai in salvo “oltre confine”, era nel suo completo interesse, serbare l’anonimato e il silenzio più assoluti, onde “farsi dimenticare da tutti” e poter, così, sperare di “salvarsi la pelle”, dato che, sulla sua testa, oltre che una condanna a morte, pendeva una “favolosa taglia” di 1000 scudi, la quale avrebbe potuto “ingolosire” molti, inducendoli a “mettersi sulle sue tracce. Il semplice fatto che si sia “arrischiato”, pur di tentare di alleggerire la gravità delle imputazioni gravanti su sr. Virginia, a “farsi vivo” con tale missiva, dimostra che, al di là di tutto, i suoi sentimenti erano sinceri.