Non ricordare i peccati della mia giovinezza:

ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore.

(Salmo 25,7)

 

 

Il 27 Novembre 1607, le autorità ecclesisitiche, nella persona del Vicario Criminale Gerolamo Saraceni, iniziano ufficialmente il processo In Causa violationis clausurae deflorationis et homicidii Monialis in Monasterio Sanctae Margaritae Modoetiae patratorum a Io. Paulo Osio” con l’interrogatorio, presso il detto Monastero, della Superiora Madre Angela Sacchi.

Nei giorni seguenti vengono via via ascoltate le testimonianze delle altre suore e dei laici (servitori del monastero, servitori di casa Osio, bottegai, vicini…) implicati a vario titolo nella scabrosa faccenda (sebbene questi, erano già stati sottoposti ad interrogatorio anche dalla magistratura civile che, in parallelo con il processo canonico, aveva istruito, nei confronti dell’Osio, un procedimento penale, con relativo processo per l’omicidio del fabbro, ed il tentato omicidio dello speziale, con l’aggravante di aver tentato di sviare le indagini, e per essere sospettato di essere il mandante dell’omicidio Roncino).

Il 22 dicembre il vicario criminale si reca al Monastero del Bocchetto per sottoporre ad interrogatorio sr. Virginia., la cui testimonianza non era ancora stata raccolta, forse, come qualcuno sostiene, per permettergli di “riprendersi” dagli “eccessi isterici” di cui aveva dato prova sia durante l’arresto che nei primissimi tempi del suo arrivo al Bocchetto, oppure, come sostengono altri, per permettere al Cardinale, o a chi per esso, di consultare prima qualche membro della sua influente famiglia, e conoscerne, quindi, il pensiero e le intenzioni, prima che il Vicario Criminale, interrogando l’imputata, desse ufficialmente corso al procedimento giudiziario nei confronti della De Leyva.

Durante questo primo interrogatorio, sr. Virginia si mostra “calma” e “pienamente padrona di sé”. Nel rispondere alle varie domande che le vengono poste, presenta la sua “difesa”, sostenendo la tesi del maleficio: ammette si, di aver commesso i delitti a lei ascritti, ma dichiara di averli compiuti “sforzata diabolicamente”, “costretta dalli incanti, e malie” poiché “più tosto haveria perso non una vita ma mille che io avessi consentito a cosa dishonesta…”, sottolineando che ella non ha “tralassiato digiuni, discipline orazioni e devozioni e quanto si poteva humanamente pregando sempre nostro Signore…”. Perciò, dopo aver più volte evidenziati i molteplici tentativi da lei compiuti, al fine di riuscire a liberarsi dall’affezione verso l’Osio e dai malefici perpetrati a suo danno, insiste sulla sua “impossibilità a resistere a forze diaboliche tanto potenti”.

Lei, dunque, non si ritiene “colpevole” dei crimini operati poiché, stando alle sue parole, alle sue azioni mancavano la “libera volontà” ed il “deliberato consenso” perché essi potessero esserle ascritte quali delitti. Perciò tali azioni possono, a suo dire, esserle imputate solo quali “errori” e lei, di conseguenza, non si ritiene una “criminale”, ma solo una “povera donna”, vittima di forze malefiche a lei superiori. Perciò è come se dicesse, rivolta a Dio e, quindi, anche alla Corte che, in quanto tribunale ecclesiastico, la sta, per così dire, “giudicando in nome di Dio” : ho sbagliato, ma Tu “Non ricordare i peccati della mia giovinezza: ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore”.(Salmo 25,7)

È qui, in questo suo “tentativo di difesa”, che entra in scena la “calamita legata in oro”. (regalatale dall’Osio in uno dei loro primi incontri in parlatorio e che sr. Virginia reputa essere l’origine di tutti i suoi mali). Dice, infatti al processo: “detto Osio … sotto pretesto di cose sante mi fece baciare una cosa legata in oro che teneva alquanto nel beretino che da poi esso mi confessò che era calamitta bianca portata da lui, e me la fece baciare e toccare con la lingua: alle quale cose era presente sr. Ottavia, e credo che detto prete Arrigone, fosse partecipe in queste cose”.

Mazzucchelli, rifacendosi ad un antico trattato di occultismo, ci informa che “La calamita bianca, … consisteva in uno stretto rettangolo di quarzo o di silice, molto levigato e con vene di ossido di ferro. Questa pietra era profondamente incassata, in senso verticale, da due sbarrette d’oro, sì da costituire un incavo largo non più di due centimetri. Chi faceva passare la lingua lungo quella scanalatura (come sr. Virginia fece su insistenza dell’Osio, dopo che egli stesso aveva compiuto la medesima azione) aveva la sensazione fosse trattenuta come da una forza derivante da un campo magnetico, con la conseguente illusione che quest’attrazione operasse magicamente su tutto il corpo, specialmente se in quel momento avesse pensato alla persona amata”.

Cosa significa che “prete Paolo Arrigone fosse partecipe in queste cose” ? Non solo che fu lui, come abbiamo visto, a scrivere le lettere che Gio Paolo faceva pervenire a sr. Virginia e che parlavano tutte “di santità et purità e dell’amore et intenzione sua (dell’Osio) che era pura e netta”, ma anche che, a quanto pare, “battezzò” la suddetta calamita, come risulta “provato” anche dal processo istituito contro di lui con l’accusa, tra le altre, di aver, appunto, battezzato detta calamita.

Le dichiarazioni processuali raccolte che concordemente parlano dell’esistenza della “calamita” bianca”, la quale, per di più, risultava essere stata “battezzata” (a detta di sr. Virginia, da prete Paolo Arrisone), daranno una svolta decisiva al processo, portando il Cardinale a chiedere l’intervento di Roma.

L’esistenza della suddetta “calamita battezzata”, infatti, metteva in campo non solo un caso di magia, (e la cosa sarebbe già stata “grave” di per sé), ma anche il sospetto di un possibile “reato di eresia”, reato la cui competenza spettava esclusivamente alla Santa Inquisizione.

A tal punto, come informa Paccagnini, “Nel corso di uno scambio di favori con Mariano Perbenedetti, cardinale di camerino e presidente del Tribunale Ecclesiastico, Federico Borromeo richiede l’invio di un giudice criminale estraneo al foro milanese. … Il cardinale di Camerino suggerisce il nome di Mamurio Lancilotto da Spoleto … che si mette subito in viaggio alla volta di Milano”.