“Signore il tuo nome è per sempre;

Signore, il tuo ricordo per ogni generazione”

(Salmo 135, 13)

 

Nel Ducato di Milano, il Cardinal Federigo, quale Arcivescovo di Milano, succeduto al cugino Carlo (unanimemente ritenuto il “tipo ideale del Vescovo secondo lo spirito dei decreti tridentini nella sua duplice funzione di risveglio dei fiacchi e di repressione degli irregolari”) seguì le orme dell’illustre congiunto, allo scopo di rammentare, sia con la predicazione che con le opere da lui intraprese, ai fedeli della Diocesi cui era posto a capo come Pastore, che “il nome del Signore è per sempre ed il suo ricordo per ogni generazione” e che tale “memento” deve informare tutta la vita di ogni singolo credente.

Sia Carlo che Federigo Borromeo, applicarono in modo estremamente rigoroso i decreti conciliari tendenti a “risanare la società”, anche nella quotidianità ordinaria e nelle realtà più “lievi” tanto che, come ci informa Pietro Camporesi, “andarono ben al di là della solita condanna formale sancita per secoli da tanti sinodi e concili, togliendo ogni spazio vitale ai comici ambulanti e ai ciarlatani”. È  facile, perciò, comprendere come, durante il loro episcopato, “accanto all'azione edificativa, venne dispiegata con non minore tenacia e sistematicità quella repressiva: fu rimesso in efficienza il tribunale arcivescovile, che riprese a irrogare le pene previste dai canoni, dalle ammende alla relegazione ed al carcere, prevalentemente al clero, ma senza risparmiare i laici, specie i concubinari; l'azione degli Inquisitori locali e quella del Santo Uffizio di Roma furono fiancheggiate e spronate nella vigilanza e denunzia dei sospetti, nella persecuzione dei ricercati, nel controllo dei libri provenienti d'oltralpe”.

Per riformare i costumi, fu, in tal modo, sollecitato l’intervento dell’autorità civile, certo facendo leva anche sulla politica di austerità, intrapresa e sostenuta da Filippo II, sotto la cui signoria era posto il Ducato di Milano.

Ad opera del Card. Carlo Borromeo furono ripristinate le carceri ecclesiastiche del palazzo arcivescovile, che furono poi dotate, ad opera del Card. Federigo, di un proprio regolamento, il quale, sebbene più “mite” rispetto a quello delle carceri civili, rimaneva comunque austero (e che la nostra mentalità odierna, non indugerebbe a definire, forse, anche “disumano”).

I Borromeo, dunque, nell’intento encomiabile di applicare “sine glossa” i dettami del Concilio Tridentino, seguendo una linea di condotta durissima, quasi estrema, intrapresero un’accanita lotta contro ogni tipo di deviazione, nonché abuso, nell’ambito del devozionalismo, come possiamo apprendere dai numerosi indices manoscritti, presenti nell’archivio della curia di Milano e di cui ci da notizia Attilio Agnolotto. Questo autore, parlando di detti documenti, ci informa che tra essi, a suo giudizio, “due … sembrano estremamente interessanti: l’Index variarum superstitionum e l’Index blasphematorum. Il primo … ci offre una serie di informazioni non manipolate che i preti del milanese davano all’arcivescovo (in questo caso Carlo Borromeo) … secondo le direttive stabilite dal quarto sinodo milanese … “si quod superstitionum genus in suae Parochiae hominibus animadvertant”. Il volume raccoglie una serie di segnalazioni e di denunce che … mettono in evidenza credenze, pratiche e usanze dei “semplici” che fanno da contraltare a quelle ufficializzate dei rappresentanti della “religio docta”, osservanti ormai della linea tridentina. L’Index superstitionum è una sorta di summa che attesta la psicologia collettiva diffusa tra i “fedeli” della diocesi ambrosiana; è un test dello spirito del secolo… in cui i casi di coscienza, i prontuari dei predicatori e dei confessori, sono tipici strumenti di comunicazione di massa … mediante questa lettura … si possono ricostruire tendenze, tensioni modalità dell’età riformistica”.

Nell’epoca della Controriforma “alla reazione folkloristica – nota sempre Agnolotto - si oppone il cavillo giuridico che è l’anticamera della repressione”. Perciò, come nel caso De Leyla, “ Quando i rischi saranno maggiori, e i casi eclatanti, quando i protagonisti saranno “gente che conta” … allora cadrà la mannaia e non sempre metaforicamente” quale “exemplum” (e  “mezzo di terrore”...) per tutto il popolo, affinché, ammonito da tale salutare “insegnamento”, si conformi obbediente ai dettami ecclesiali e adotti una condotta sempre più morigerata.

In questo rapido sguardo d’insieme fatto, non è da trascurare, infine, il posto “d’onore” che il cristianesimo, fin dalle origini, ha sempre riservato alla vita monastica. 

Il monachesimo, in particolare quello femminile, era considerato come la “pupilla” della cattolicità (non per niente, uno dei primi “attacchi” della Riforma Protestante, fu rivolto contro la vita religiosa claustrale, abolendone ogni forma).

Il secolo XVII, in particolare, non solo non sfuggì a quest’ ottica di  “vita privilegiata” riservata alla vita religiosa, ma, sotto alcuni aspetti e per diversi motivi, l’accentuò.

Alle monache, il Card. Federigo rivolse, durante tutto il periodo del suo episcopato,  cure attentissime indirizzando loro una considerevole quantità di documenti e lettere esortative. Rivolgendo loro tale attenzione, è logico supporre che ogni defezione o irregolarità dovette essere per lui causa di profondo dolore e, di conseguenza, è facile anche immaginare quanto dovette “pesarle” il “caso di Monza” e comprendere così il perché “calcò tanto la mano” nel punire sr. Virginia per un delitto che era certo una “mostruosità” (dati i molteplici omicidi che esso implicò) ma non era neppure l’unico caso di “violationis clausurae et deflorationis”, (le motivazioni che leggeremo, quali “cause” dell’istruttoria giuridica attuata nei confronti di sr Virginia e dei “fatti di Monza”, nell’intestazione del processo) nel panorama seicentesco, dove era norma - formalmente condannata ma praticamente conosciuta e tacitamente quasi accettata - il fenomeno delle monacazioni forzate che costringevano al voto di castità fanciulle o giovanotti che …. avrebbero volentieri “fatto famiglia”.