Il digiuno come spettacolo:

gli artisti della fame

 

Nel settembre 2003, l’illusionista americano David Blaine digiunò per 44 giorni, dopo essersi fatto rinchiudere in una scatola di vetro sospesa tra il Tower Bridge e il municipio di Lord Foster a Londra.

Il fatto divenne un caso mediatico (anche per il contratto da un milione di sterline - pari a un milione e 420.000 euro - stipulato da Blaine con Sky). 

 

IL “CASO” BLAINE

 

Nonostante l’apoteosi finale (una nutrita folla era presente e moltissimi vi assistettero tramite la TV sintonizzandosi su SkyOne), l’impresa suscitò reazioni diverse. Ci fu infatti chi, durante i giorni in cui Blaine digiunava, sfilò con cartelloni manifestanti  simpatia e chi, invece, lo insultò o giunse a bersagliare la scatola di vetro, dapprima con uova e poi con palle da golf.

Come classificare il fatto? Come definire David Blaine? Dobbiamo considerarlo l’ennesimo esibizionista o possiamo ritenerlo un novello “artista della fame”?

Molto dipende dalla motivazione che ha mosso Blaine. È stato solo il contratto milionario e il desiderio di esibirsi in un’impresa decisamente ardua o anche la voglia di misurarsi con sé stesso e tastare la sua capacità di resistenza a uno stimolo primordiale qual è quello della fame?

Fino in fondo non ci sarà mai dato di sapere quali sono le risposte corrette a queste domande.  Più sondabile e comprensibile è, invece, la reazione che tale impresa ha suscitato nella gente. 

Mentre un secolo fa le imprese degli “artisti della fame” erano uno spettacolo che riscuoteva notevole interesse e richiamava un folto pubblico, oggi come oggi, dove  la stampa e la televisione ci mettono quotidianamente sotto gli occhi le immagini agghiaccianti di intere popolazioni che muoiono di fame a causa di guerre,  carestie o povertà estrema, il digiuno come mera forma di intrattenimento non trova più posto  nella nostra coscienza sociale.

Capiamo e ammiriamo chi digiuna per motivi religiosi, condividiamo e solidarizziamo con chi lo fa come forma di protesta sociale e politica; comprendiamo chi lo fa per motivi di salute; ammettiamo, al limite, che ci sia chi lo fa per motivi estetici (sebbene sia sotto gli occhi di tutti il pericolo di estremismi anoressici, soprattutto tra le adolescenti), ma di fronte a chi digiuna solo a scopo di lucro o per mera esibizione personale, generalmente, dopo una superficiale e divertita curiosità epidermica, rientriamo in noi stessi e siamo portati a scuotere la testa e a tirare oltre biasimando, più o meno coscientemente, in cuor nostro, l’impresa.

Lo testimonia il fatto che, terminata l’eco mediatica, ciascuno tornò tranquillamente alla sua vita di sempre e nessuno pensò più a David Blaine.

 

GLI “ARTISTI DELLA FAME”

 

Non così avveniva, come dicevamo sopra, nel secolo scorso.

Tra la fine del1800 e i primi decenni del 1900, “gli artisti della fame” o “scheletri viventi” come venivano definiti i “digiunatori di professione” a causa della loro estrema magrezza, erano  molto apprezzati. 

Ma chi erano precisamente gli “artisti della fame”?

Tale fenomeno sorto, alla fine del XIX secolo e restato in auge fino agli anni trenta del secolo scorso, vedeva alcune persone, appunto i cosiddetti “artisti della fame”, fare della loro capacità di astenersi dal cibo per periodi lunghissimi, un’occupazione remunerativa: dietro compenso essi si esibivano nei circhi, nelle fiere o nei parchi di divertimento, attirando folle ingenti di spettatori curiosi di vedere e ammirare tale prodezza, sebbene, nel fondo di ciascuno, una velata ombra di sospetto ed il dubbio che, in tali artisti, ci fosse “qualcosa di strano”, qualcosa, per così dire, “che non andava”, era quasi sicuramente presente.

L’ “ultimo canto del cigno” di questo fenomeno si ebbe a Berlino nel 1926 quando si esibirono contemporaneamente sei artisti. Particolarmente spettacolare fu ritenuta l’impresa di uno di questi, il quale si esibì all’interno di un rinomato ristorante. Mentre tutt’attorno i camerieri servivano ai vari clienti    

profumate e gustosissime portate, egli, sotto una campana di vetro, sorseggiava semplicemente acqua mentre un cartello, posto lì a fianco, indicava il numero dei giorni di digiuno. 

 

DIGIUNO E LETTERATURA

 

Una descrizione dettagliata quanto emblematica di tale fenomeno, ce la fornisce il racconto “un digiunatore” di Kafka, sebbene essa non sia l’unica in quanto, il tema del digiuno, non è per nulla estraneo alla letteratura.

In tutti i secoli e in tutte le culture, infatti, esso è presente e di esso vengono, di volta in volta, accentuati questo o quel carattere, questo o quell’aspetto.

Possiamo così notare come nella letteratura antica, soprattutto in quella latina, venisse evidenziato prevalentemente il carattere salutifero – sia per il corpo che per lo spirito – e più raramente, quello di pratica cultuale verso gli dei, sebbene, in alcuni casi,  fosse anch’esso  presente.    

In seguito, nella letteratura cristiana delle origini come in quella medioevale, l’aspetto religioso prese il sopravvento e il digiuno venne  inscindibilmente legato alla dimensione ascetico – penitenziale. 

Altra valenza, decisamente profana, assunse, poi, nella letteratura moderna, dove il tema del sacro legato a quello del digiuno, venne o irriso (si pensi alla poesia dialettale del Belli o all’opera “Le jeùne” di Zola) o legata alla spiritualità delle religioni orientali nostalgicamente viste, durante il Romanticismo, come espressione di un “ritorno alla purezza originaria” (si veda “Siddharta” di Hesse). 

 

“ UN DIGIUNATORE” DI KAFKA

 

La novella kafkiana ha però una particolarità e, come vedremo in seguito, una sua intrinseca unicità. 

Oltre ad offrire al lettore una precisa descrizione di un aspetto particolare del digiuno - quello appunto degli artisti della fame – essa presenta un ulteriore aspetto che la rende particolarmente interessante: nel racconto non viene narrata tanto l’impresa oggettiva quanto la dimensione psicologica interiore del protagonista. Leggiamo infatti: “Nessuno era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere cos’ anche lo spettatore soddisfatto del suo digiuno. Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: … perché non era soddisfatto di sé”. 

Iniziamo così ad avere un primo indizio dell’indole del protagonista.

Modello ispiratore del personaggio letterario del “digiunatore” poté forse essere Giovanni Succi il quale si esibì, digiunando per lunghi periodi, per circa trenta volte in varie città d’Europa, riscuotendo fama e onore nonostante il fatto che, tra un digiuno e l’altro, egli fosse spesso costretto a soggiornare in manicomio in quanto egli sosteneva che, le sue capacità digiunatorie, erano  dovute a uno spirito buono che lo inabitava  permettendogli, così, di vivere senza cibo.

Ma, scorrendo le pagine, nel personaggio del digiunatore, ci si accorge – e la critica su questo è ormai quasi pressoché unanime – che nella descrizione psicologica del protagonista vi è anche un riflesso autobiografico dell’autore: il suo disagio esistenziale e la sua “inettitudine” alla vita.

“Nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre - scrive Kafka - tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno – questa testimonianza non gli si poteva negare – aveva lasciato la gabbia spontaneamente. … Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più gran digiunatore di tutti i tempi – questo, forse, lo era già – ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate?” 

L’insoddisfazione del digiunatore è, infondo, anche l’insoddisfazione di Kafka; il suo sentirsi “incompreso” è anche il senso di incomprensione che accompagna Kafka fino a farlo quasi sentire un “isolato dalla vita”. E lo stesso ostinarsi nel voler digiunare manifestato dal digiunatore, altro non è che una fuga dalla normalità del quotidiano e, con essa, dalla vita stessa, tendenza che non è difficile riscontrare, in parte, anche nell’esistenza dell’autore.

 

GLI SCRITTORI: ARTISTI DELLA FAME

 

Ma, sotto un certo punto di vista, “artisti della fame” possono essere definiti anche gli scrittori stessi, o meglio, i soggetti che emergono dalla descrizione che, nella letteratura, viene sovente fatta di loro: quasi sempre giovani squattrinati e, di conseguenza, perennemente affamati.

Ne è un esempio il romanzo “Fame” che Hamsun pubblicò alla fine dell’ ‘800. Esso è un’opera autobiografica in cui l’autore, celatosi nelle spoglie dell’anonimo narratore, lungo il dipanarsi del testo, descrive minuziosamente lo stato psicofisico di chi si ritrova “alla fame”. 

L’essere “affamato”, però, nonostante gli indiscutibile disagi  e risvolti negativi che questa condizione presenta (ipersensibilità, sbalzi d’umore, …) non viene  visto come condizione meramente negativa ma viene presentato come condizione ideale per “l’estasi creativa”, un mezzo sofferto ma anche agognato  perché ritenuto idoneo se non indispensabile per la produzione artistica in genere e letteraria nella fattispecie.   

Così, parlando del romanzo di Hamsun, Robert Bly scrive: “È come se il suo inconscio avesse voluto questa sofferenza come una medicina. Il protagonista di Fame obbedisce all’inconscio e resta affamato, a dispetto della sofferenza, finché non ha vissuto o appreso ciò che doveva”.

Anche il romanzo di Orwell “Senza un soldo a Parigi e a Londra” che, apparentemente sembra voler dissacrare il mito dello “scrittore affamato” in realtà non fa che confermarlo. Anzi, si potrebbe dire che lo consacra praticamente come un  “rito di passaggio obbligato” per poter giungere all’introspezione e, tramite essa, a quell’ascesi, sia essa spirituale o artistica, che conduce all’interiorità e, quindi, alla creatività.

 

QUANDO IL DIGIUNO DIVENTA UN DRAMMA

 

Ed è proprio qui che emerge la differenza tra il racconto di Kafka e tutte le altre opere letterarie che trattano il tema del digiuno e che fa sì che, il testo kafkiano possa essere considerato quasi drammatico.

La tragedia del digiunatore di Kafka è insita proprio nella motivazione interiore che lo spinge al digiuno o, per meglio dire, che fa si che il digiunatore si senta “costretto” al digiuno: il cibo non è di suo gradimento. 

 Nell’epilogo della vicenda del digiunatore leggiamo infatti: “«Perdonatemi voi tutti» sussurrò il digiunatore; … «Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno… E invece non dovete ammirarlo… Perché sono costretto a digiunare… Perché io… perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri.» Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare.«E ora fate ordine!» disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato”. 

È questo l’unico motivo per cui egli digiuna e si identifica con il suo stesso digiunare: per lui il digiuno è il fine non un mezzo per raggiungere “un oltre”. Non si prefigge scopi umanitari, sociali, politici spirituali, o che altro. Non ha neppure uno scopo interiore o anche semplicemente personale. Non si attende nulla dal digiuno: digiuna e basta. Il suo digiuno non è quindi un’esibizione spettacolare ma un dramma esistenziale.

Il digiuno, per così dire, non è né “subìto” né “agognato”: è semplicemente “vissuto” come “condizione d’essere”. Il digiunatore di kafka si identifica con il suo stesso digiuno perchè non si aspetta più niente né da sé né dalla vita.

 

ARTISTI DELLA FAME OGGI 

 

Ma oggi, il digiuno come spettacolo è proprio bandito? 

Se è vero che non esistono più artisti della fame che fanno del digiuno una professione, è anche vero che 

vi sono categorie di persone nella cui vita, la dimensione della restrizione alimentare fin quasi digiuno, è parte integrante della loro quotidianità. 

Non possiamo considerare, infatti, almeno sotto un certo punto di vista, le modelle che, per vivere nel mondo patinato e dorato della moda si sottopongono a digiuni e astinenze rigidissime pur di giungere ad un fisico filiforme da esibire sulle passerelle? E dalle passerelle alla vita vera … il passo è breve in quanto la moda fa tendenza e con essa, le diete “da fame” vengono spesso a ricoprire per molti quasi il ruolo di una vera e propria religione: ne sarebbe una conferma l’infinità di siti, più o meno legittimi, legati ad “Ana” (abbreviativo di “Anorexia”), da molti definita la dea dell’apparire, che impazzano sul Web raccogliendo numerosissimi adepti e, purtroppo, spesso, anche vittime.   

 

I “CALORIE-COSTRICTORS”

 

Una versione moderna, in positivo, degli artisti della fame può, invece, essere rintracciata negli aderenti al “Calorie Restriction Society”.  I suoi membri, convinti degli indubbi benefici che una riduzione, rispetto alla media standard, delle calorie quotidianamente assunte comporterebbe per la salute,  pur mantenendo l’assunzione della quantità necessaria al nostro organismo di proteine, carboidrati vitamine e sali minerali per il suo regolare funzionamento, hanno ridotto l’apporto calorico giornaliero a 1500 – 1900 calorie distribuite in una dieta variata e ben bilanciata. Vivono in uno stato psicofisico dove il senso della fame – come essi stessi ammettono – è compagno quotidiano (ed è per questo che si scambiano tra loro suggerimenti e consigli per eluderlo) ma al contempo si sentono vitali e attivi. Il loro scopo è infatti  vivere più a lungo e in salute senza, però per questo, privarsi dei piaceri della vita, tavola compresa, anche se in tale ambito alcune limitazioni sono necessarie al raggiungimento del fine. 

Ma forse siamo tutti un po’ “artisti della fame” poiché, come scrive  Sharman Apt Russell nel suo libro “Fame - Una storia innaturale” concludendo il primo capitolo, quello dedicato appunto agli artisti della fame: “Ogni mattina ci svegliamo affamati. La fame e la sazietà sono i poli tra cui oscilliamo per tutta la nostra esistenza. La fame circola per il nostro sistema sanguigno. La fame bussa all’ipotalamo. La fame ci guida in cucina. A noi tocca il posto del passeggero. Siamo tutti artisti della fame”.

A noi saper usare del nostro piccolo o grande  digiuno come un mezzo per giungere a un oltre e aprirci a ideali superiori e non invece come a un fine “a sé stante” che ci rinchiuderebbe soltanto in un disperato ripiegamento su noi stessi.