Tra i “cavalieri del Graal” veri e propri, cioè quelli che giunsero a prendere parte compiutamente al Mistero del S. Graal, il  primo che incontriamo è Bors, figlio di Re Bors e cugino di Lancillotto.

 

Bors

 

Egli è l’unico ad essere sposato. Sarà proprio questo suo essere “marito” e “padre” (cosa da notare è che suo figlio nascerà proprio durante la “Ricerca”) a permettergli – poiché lo vive all’interno del sacramento nuziale – di penetrare maggiormente, rispetto ai suoi compagni, il Mistero grande dell’amore umano elevato a “segno” dell’Amore divino e a fare, di questo, un “punto di forza” nel suo cammino di ricerca per giungere felicemente al Graal.

“Bors – scrive Matthews – rappresenta la cavalleria terrena (mentre Percival e Galahad, come vedremo in seguito, incarnano rispettivamente la cavalleria  “oltre-umana” e quella “celeste” vera e propria). Bors è l’uomo comune […] che nondimeno dal potere del Graal è elevato a una posizione da cui può scorgere e provare i più grandi misteri. Bors […] osserva ogni cosa con una sorta di stupore. Egli non sa perché sia stato scelto e nemmeno per che cosa sia stato scelto, ma accetta spontaneamente e percorre un camino verso il Graal che è spesso molto più duro per lui proprio perché egli è meno orientato spiritualmente dei suoi compagni. Forse per questo le sue tentazioni sono sempre più forti e producono gli effetti più drammatici”. Questa “drammaticità” delle scelte che Egli è chiamato a fare risalta chiaramente, ad esempio, nel dilemma interiore derivatogli dal dover scegliere se salvare una damigella (che gli chiede aiuto) o il fratello (rapito e percosso sotto i suoi occhi) oppure, come gli accade in un’altra occasione,nel dover    opporre un’ardua resistenza ad un gruppo di dame che minacciano di suicidarsi se egli non cederà ai desideri – illeciti – di un’altra dama, loro “signora”. Bors, anche se non senza un ardua lotta interiore, resta fedele ai suoi ideali cavallereschi e al suo amore coniugale verso la sua sposa e “passa” vittoriosamente attraverso le varie prove. Quello di Bors, durante la Ricerca, come dice Matthews, è il comportamento di chi “sa di essere nel giusto grazie a una specie di certezza interiore e fa quanto sta in lui per riconoscerlo. L’atteggiamento ci può sembrare moralistico ma esso rivela una devozione totale alla Ricerca”.

“Un particolare è importante da sottolineare – nota Franco Corsi –che Bors “è l'unico a tornare a Camelot, quando la ricerca è terminata, per riferire ad Artù e al resto del mondo tutto ciò che è avvenuto. Si tratta, dunque, di colui che ha portato testimonianza alla verità del mistero del Graal, e che ha ritenuto importante rivelare a tutti la sua scoperta. È lo stesso entusiasmo con cui il cristiano vuole spendere la sua vita per testimoniare ciò che ha trovato: la gioia per la scoperta di un Dio che ama tutti immensamente, e che propone una vita che dà la felicità”.

 

 

Peguy

 

Un “novello Bors” lo possiamo scorgere nella personalità nonché nella vita di Peguy.

Egli, dopo una fanciullezza vissuta in una pratica formale della religione e in un adolescenza e una giovinezza atee, una volta “riscoperta” in sé la fede, vive coerentemente ad essa senza però, per questo, né rinnegare la sua vita precedente né, tanto meno, venir meno ai suoi doveri di “marito” e di “padre”.

Ma prima di “addentrarci” nell’analisi della figura di questo autore e di constatarne le affinità che lo legano al nostro leggendario Bors è doveroso fare, su Peguy, alcune “precisazioni” di carattere biografico.

 

 

Alcune anotazioni biografiche

 

 Charles Peguy nasce a Orleans, il 7 gennaio del 1873 in un clima culturale in cui – come nota Gianni Valente – “la Francia repubblicana celebra i suoi fasti laici”.

Orfano di padre cresce con la madre, donna semplice e forte che si prodiga senza risparmio, lavorando “notte e giorno”, per sovvenire alle molteplici necessità della famiglia e che al figlio, dotato oltre che di un’intelligenza viva di una notevole delicatezza interiore, impartisce un’educazione cristiana in cui, come scrive Gianni Valente, “tutto l’insegnamento religioso … rifluisce in una morale del dovere, del lavoro e del sacrificio, quella che il sensibile fanciullo vede ogni giorno impersonata nella fatica senza requie di sua madre”. Perciò, Peguy “a sedici anni abbandona i corsi facoltativi di istruzione religiosa” e “a diciassette smette di recarsi alla messa domenicale”. È così che “per l’universitario Peguy, giovane “ardimentoso, cupo e stupido” come si definirà lui stesso quasi vent’anni dopo, le parole che infiammano il cuore finiscono per essere “quelle del socialismo utopista e rivoluzionario … militanza rivoluzionaria che Peguy abbraccia come una religione”.

A 23 anni sposa, ovviamente solo civilmente, Charlotte Baudovin, sorella dell’amico nonché compagno di partito, Marcel Baudovin ed apre a Parigi una libreria socialista che diviene ben presto anche un’impresa editoriale. L’attività però stenta a “decollare” e non sarà mai una fonte rilevante di guadagno.

Charles e Charlotte formano una coppia affiatata, legata dall’amore reciproco e dai comuni ideali socialisti. La loro unione viene allietata dalla nascita di tre figli ma, a causa del lavoro che “va a rilento”, le risorse economiche in casa Peguy divengono sempre più esigue.

Nel 1900 Peguy aveva fondato anche una rivista, i “Chahiers de la quinzaine”, divenuta subito un cenacolo di “liberi pensatori” e frequentato da gente di ogni appartenenza politica.

Anch’essa però non incontrò mai grande fortuna né diffusione.

 

 

La riscoperta della fede e la prima “prova”: la reazione della moglie

 

È in questo “clima”, immerso nelle difficoltà economiche e nelle varie preoccupazioni familiari, che Peguy riscopre in sé la fede cristiana, fede che, come scrive Gianni Valente, è “per Peguy un nuovo inizio di grazia, una gemma miracolosamente sbocciata nel deserto della sua propria vita affaticata dentro i mille impegni … Ma proprio perché nuovo inizio di grazia, non viene mai percepita come un’abiura della propria vita trascorsa “in partibus infidelium”, un ritorno all’ovile cattolico del militante socialista”. Scrive lo stesso Peguy: “È per un approfondimento del nostro cuore sul medesimo cammino, e non è affatto per un’evoluzione, né per un ripensamento, che abbiamo trovato la strada del cristianesimo. Non l’abbiamo trovata grazie ad un ritorno. Piuttosto l’abbiamo rinvenuta al termine. Ed è per questo, occorre che lo si sappia bene dall’una e dall’altra parte, che non rinnegheremo mai un solo atomo del nostro passato”.

Nascono però, a questo punto, i disaccordi in materia di fede con la moglie, la quale, fedele ai suoi ideali socialisti fino ad allora condivisi col marito, non vuole neppur sentir parlare di religione e consimili. Di conseguenza, di “regolarizzare” la loro unione coniugale, sposarsi in Chiesa e battezzare i bambini non vuole nemmeno sentirne parlare. È di questo periodo anche la “profonda simpatia” che Peguy scopre di provare per Blanche Raphael, una giovane donna conosciuta nell’ambito del suo lavoro redazionale alla rivista. Peguy comunque resiste all’attrazione che prova e rimane fedele alla moglie e ai suoi impegni coniugali.

 

 

Nella Chiesa: “un peccatore con i tesori della Grazia”

 

Ma Ciò che accresce oltremodo il tormento interiore di Peguy è la consapevolezza di essere, per la Chiesa, in una situazione “irregolare”.

Si instaura così in lui un continuo e un profondo dilemma interiore: egli ha ritrovato in sé la fede in Dio, fede che egli sente profondamente e vive come un nuovo “germoglio” della Grazia” sbocciato nella sua vita quale “conseguenza” del suo cammino interiore di ricerca della verità.

Peguy infatti, come scrive Lucio Brunelli, vive la sua fede come “La grazia di un incontro, che realmente e gratuitamente corrisponde al cuore, apre a una sequela e immette in una dimora” (sull’esempio dell’episodio evangelico della chiamata dei primi discepoli: “Maestro dove abiti? Venite e vedete. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di Lui. Erano circa le quattro del pomeriggio”).

Ma, se da una parte, come abbiamo visto, Peguy vive la grazia della fede ritrovata come un dono immenso quanto immeritato, dall’altra vive in sé l’amore, altrettanto vivo e profondo, per la moglie e i figli, i quali non condividono con lui il dono della fede e di conseguenza lo pongono inevitabilmente, anche se  del tutto involontariamente, in una situazione canonica irregolare, che lo priva della possibilità di “vivere in pienezza” la gioia della fede ritrovata poiché, la sua situazione coniugale, gli impedisce di accostarsi ai Sacramenti.

Peguy, nel desiderio di “conciliare” questi “opposti” amori, si rivolge, per chiede consiglio e trovare una soluzione, agli amici più intimi (tra cui figurano anche i coniugi Maritain e il benedettino Baillet).

La reazione degli amici, però, non solo non gli apporta la sperata soluzione ma è talmente “rigida ed intransigente” da provocare in Peguy un ulteriore accrescimento della già profonda sofferenza interiore che diviene un vero e proprio “martirio del cuore”. 

Peguy si trova infatti a dover vivere la sua fede unita all’amore per la famiglia da solo, sostenendo tutto il peso e la responsabilità di questa sua scelta, privo di qualsivoglia aiuto o conforto umano e sorretto solo dalla grazia alla quale si abbandona.

 

 

I consigli degli “amici”

 

Ma qual’era stata la “risposta” degli “amici”?

L’amico benedettino Baillet, interpellato riguardo alla situazione di Peguy, aveva scritto a Maritain: “Restare nella situazione presente è impossibile: la legge divina è formale: niente può impedire al nostro amico di riconciliarsi con la Chiesa […] Il suo primo dovere non è di andare a Messa, ma di regolarizzare la sua unione: lui lo deve fare il più presto possibile, e quali che siano le conseguenze […] deve dichiarare alla sua donna la sua risoluzione di rientrare nella Chiesa, perciò di sposarla in Chiesa e per ciò di farla battezzare dopo aver ricevuto l’istruzione richiesta dalla Chiesa . Se lei accetta, ciò sarà una testimonianza d’amore assai chiara per permettere a lui di riappacificarsi con lei […] Se lei rifiuta lui sarà libero e allora sarà il tempo di regolare i dettagli della situazione […]. È un sacrificio estremo che gli è richiesto: che lo compia senza stare a guardare le conseguenze possibili del suo atto”.

A tale scritto, Maritain, che riteneva quello di Peguy il comportamento di “un imbecille”, di uno che “scialacqua la grazia” e di uno che si illude “che la salvezza sia facile” e di conseguenza “si accontenta con delle cose non essenziali”, aveva risposto a Baillet: “la sua risposta è che egli non vuole abbandonare sua moglie, vuole che lei sia battezzata ed entri nella Chiesa, e che per questo lui non deve adottare mezzi violenti”. Successivamente,  in un altro scritto aggiunge: “Vi ho già detto che la verità teologica non gli interessa […] Lui crede che la fede del carbonaio sia una fede più grande di quella di San Tommaso; crede che la parola divina non sia altro che delle parole: soltanto il sensibile lo tocca”. questo dimostra come gli amici non comprendano il travaglio interiore di Peguy, fraintendano le sue motivazioni e ritengano, quello di Peguy, il “comportamento di comodo” di un illuso o di un presuntuoso.

 

 

Peguy: risponde, persevera e attende

 

Ciò nonostante Peguy non demorde e resta fedele ai suoi ideali e alle pretese degli amici sembra quasi dare una risposta quando scrive: “L’azione della grazia, ecco ciò che bisogna rispondere agli imbecilli che domandano la ragionevolezza della fede”. […] “una grazia totale. Una grazia nuova. E se posso dire una grazia giovanile. Perché l’eternità stessa è nel temporale. E ci sono grazie nuove e grazie che sarebbero come invecchiate”.

Per Gianni Valente: “La vera radice dello scandalo che mandava in bestia gli intellettuali cattolici” (e tra essi gli amici) era “non tanto la presunta (da loro) incoerenza morale di Peguy quanto il suo essere uomo di frontiera, uno che rimane sulla soglia della Chiesa, che è anche il luogo nativo, quello in cui il non cristiano, per grazia diventa cristiano. Cioè il luogo in cui il non cristiano, per grazia si accorge stupito che il cristianesimo corrisponde inaspettatamente al suo cuore”.

“Peguy è indivisibile – scrive Von Balthasar – e sta perciò dentro e fuori la Chiesa, è la Chiesa in partibus infidelium, dunque là dove essa deve essere. Egli lo è grazie al suo radicamento nel profondo, dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si penetrano fino a rendersi indistinguibili.[…]. Semplicità biblica e castità speculativa forniscono a Peguy un’incorruttibile chiarezza di sguardo per il mondo come esso realmente è, grandeur et misère”.

Per ciò Peguy non lascia la moglie. Questo proprio perché, “Per Peguy, – nota Gianni Valente – diventare cristiano, è stato un dono non dovuto, l’azione della grazia di un altro percepita nella propria vita. Questo nuovo inizio di grazia, questo fatto nuovo, […] per sua natura non si può pretendere. Si può solo attendere, e domandare, e registrare quando accade. Tanto meno si può imporre agli altri”. “È a un Altro che chiede di operare, cambiando le cose. Affida questa domanda ai gesti più abituali che la Chiesa da sempre affida ai suoi figli: chiede soccorso ai santi, ripete da povero peccatore le preghiere a Maria”.

Peguy non lascia la moglie: è quasi come se nel suo cuore comprendesse che come Dio non forza mai la volontà umana e la rispetta in ogni caso (anche quando l’uomo si sta facendo “palesemente” del male), così egli è chiamato a rispettare la sacralità naturale della sua unione.  Chi è dunque lui - sembra implicitamente chiedersi Peguy - per “obbligare” la moglie a ricevere un sacramento che lei non vuole e in cui non crede?

 

 

Le “indicazioni” (della Grazia) e le “analogie” (temporali)

 

Nonostante questa sua fermezza interiore, Peguy non vive certo questa sua situazione “alla leggera”. È ben consapevole del suo essere un “irregolare” e della “rischiosità” della sua situazione ma si affida alla Grazia e su di essa si appoggia, sicuro di essere sostenuto da essa e da essa soltanto. Scrive infatti ad un amico: “Vivo senza Sacramenti. È un’impresa folle. Ma godo di un dono della grazia, di una sovrabbondanza di grazia inconcepibile. Obbedisco alle indicazioni”. Peguy soffre ma ha le idee ben chiare e “obbedisce alle indicazioni”. Quali indicazioni? Sicuramente quelle della Grazia. Peguy non giudica nessuno né, tanto meno, condanna alcuno. Ciononostante ne denuncia gli errori: come si dice, non condanna il “peccatore” ma non giustifica “il peccato”.

La sua analisi è, da un certo punto di vista, tanto lucida quanto “spietata”.

Nei suoi scritti leggiamo infatti: “C’erano anche delle analogie sconvolgenti tra il tempo dei Romani e il nostro; più che delle somiglianze, più che delle analogie singolari; come uno stesso andamento; una stessa indicazione; uno stesso avvio. Si può dire che nel mondo romano era tutto pronto, che tutto era pronto a partire […] affinché il mondo moderno partisse allora, invece di oggi; si trattava dello stesso disordine e dello stesso tipo di disintelligenza. Era tutto preparato. Ma venne Gesù. Doveva fare tre anni. Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per frignare e per invocare i mali dei tempi. Eppure c’erano i mali dei tempi, del suo tempo. Arrivava il mondo moderno, era pronto. E lui tagliò (corto). Oh, in modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Mettendoci in mezzo il mondo cristiano. Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo.

Invece, nota Peguy, “I farisei vogliono che gli altri siano perfetti. Ed esigono e reclamano. E non parlano che di questo”. (sta parlando anche dei chierici e degli intellettuali cattolici) “Lamentarsi e inveire è il loro forte […]. Essi brontolano, mugugnano, rimbrottano […]. Sono di cattivo umore e, quel che è peggio, hanno l’umore cattivo […]. Il minimo che si possa dire è che la loro proprietà, la proprietà di questi interventi, è di contrastare sempre l’operare della grazia, di andare contro sempre, con una sorta di terrificante pazienza. Camminano nei giardini della grazia con una brutalità terrificante. In questa terra mutevole, in questa terra benedetta, in questa terra di grazia, ogni loro passo segna, calpestano le aiuole regolari, affondano i talloni, sollevano zolle di terra. Si direbbe che siano ingaggiati per questo […]. Si direbbe che il loro unico proposito sia di sabotare i giardini eterni. Che non abbiano che un pensiero nel tempo, che è quello di impedire, appena ne vedono, qualche fioritura, la fioritura della santità. […]. Ci riescono anche troppo. Non bisogna dire che è pericoloso. Bisogna dire che è terrificante. E quando si pensa che non fanno altro dall’inizio del mondo […]. Di una brutalità di un’indiscrezione terrificante, anche e soprattutto nei confronti della grazia e (naturalmente con questo) parlano sempre di discrezione; lasciando liberi sempre i loro piedi terrosi (non dico terreni, non dico terrestri) […]. Ci riescono bene da nessuna parte come là riescono meglio. Ma bisogna rendergli atto che là lavorano attivamente […]. E sopratutto quando Dio, attraverso il mistero della grazia, lavora le anime, loro non mancano, non mancano mai di credere, questi buoni curati, che Dio non pensa che a loro, che non lavora che per loro, che lavora, che pensa unicamente a loro, per loro, spesso e per il loro vantaggio temporale”.

“Questi (altri) – scrive ancora Peguy – accusano le sabbie del secolo, ma anche al tempo di Gesù c’erano il secolo e le sabbie del secolo. Ma sulla sabbia arida, sulla sabbia del secolo scorreva una fonte, una fonte inesauribile di grazia”.

 

 

Il Cristianesimo: “un avvenimento molecolare”

 

Nella sua analisi Peguy sottolinea anche che “Dopo la venuta e la morte di Cristo, […] che è nonostante tutto venuto per salvare il mondo. Dopo l’Incarnazione, dopo la predicazione, dopo la redenzione [….] dopo tanti misteri, […] dopo quella storia unica […] il volto del mondo non è stato affatto sensibilmente modificato, la storia del mondo non è stata affatto sensibilmente cambiata. Intendo di fuori, superficialmente, pubblicamente e per così dire storicamente”. Questo, a suo giudizio, avviene perché “Il cristiano, il cristianesimo, la cristianità, la cristianizzazione, l’avvenimento cristiano, l’operazione cristiana è un’operazione molecolare, interna, istologica, un avvenimento molecolare, che spesso ha lasciato intatte le cortecce dell’avvenimento”.

Quella che “Peguy rimprovera ai cattolici del suo tempo – precisa Finkielkraut – è “una “mancanza di mistica”. Perché la mistica non è, come si crede abitualmente, l’immediatezza del contatto con il cielo, ma il fatto che l’anima mantenga i piedi sulla terra. Gesù si è fatto uomo: non si è ritirato dal mondo, c’è entrato a pieno titolo, ci si è avventurato assumendo “lealmente e senza trucchi” tutti i connotati della condizione umana. Ma i chierici negano […] l’iscrizione dello spirituale nel carnale, perpetuando il dualismo metafisico della carne e dello spirito. Erigono a modello la disincarnazione invece della gratuità e il distacco dal mondo per amore di Dio invece del distacco da sé per amore del mondo”.

Ecco perché Peguy annota: “per spiegare […] un disastro di quest’ordine, bisogna che sia stato commesso un errore dello stesso ordine. Per spiegare un tale disastro, un disastro mistico, un disastro di mistica, bisogna che un errore di mistica sia stato commesso”.

 

 

La Grazia opera nel temporale

 

Come evidenzia Gianni Valente “questo errore” di cui parlava Peguy, “è l’aver negato “il meccanismo stesso del Cristianesimo”. Ossia il fatto che l’eterno non può raggiungere il cuore dell’uomo se non nel tempo. […] Negando il temporale, misconoscendo l’opera della grazia nel tempo, nel tempo che passa e che è così poca cosa […] si è disconosciuta la dinamica stessa del fatto cristiano”.

“Ecco quello che dimenticano troppo spesso – scrive Peguy –, quello che perdono di vista di solito i nostri chierici, e coloro che vivono nella regola, e anche coloro che vivono nel secolo. Nella loro ignoranza del secolo (temporale) c’è tanta empietà; in questa ignoranza, più o meno volontaria, più o meno involontaria; più o meno consapevole, ma di solito molto consapevole; in quel disprezzo più o meno esibito, tanto orgoglio di sicuro e tanta pigrizia; che sono due peccati capitali; ma cosa (ancora) più grave, di certo infinitamente più grave, tanta empietà. […] Ciò costituisce invece una grossa eresia […] ciò a cui rinunciano non è inferiore a tutto quello che costituisce il prezzo, il segreto, il mistero, il valore del cristianesimo, che loro servono, […] Tolgono la creazione, l’incarnazione, la redenzione, il merito, la salvezza, il premio della salvezza; il giudizio e qualcos’altro; e naturalmente e soprattutto la grazia […] l’operare della grazia”.

E, altrove, soggiunge, quasi a “specificare”: “Poiché non hanno la forza (e la grazia) di essere della natura credono di essere della grazia; […] Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo credono di essere di Dio. Poiché non hanno il coraggio di essere di uno dei partiti dell’uomo, credono di essere del partito di Dio. Poiché non sono dell’uomo, credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno credono di amare Dio”.

Perciò ha ragione Peguy quando dice: “Non sono cristiani, voglio dire che non lo sono fino nel midollo. Perdono continuamente di vista quella precarietà che è per il cristiano la condizione più profonda dell’uomo; perdono di vista quella profonda miseria; e non tengono presente che bisogna sempre ricominciare. È una precarietà eterna. Niente di acquisito è acquisito per sempre. Ed è la condizione stessa dell’uomo ed è la condizione più profonda del cristiano. L’idea di una acquisizione eterna, l’idea di una acquisizione definitiva e che non sarà più contestata è ciò che c’è di più contrario al pensiero cristiano ”.

 

 

La fede di Peguy

 

Peguy “si discosta” dalle “teorie teologiche”, o meglio, “prende le distanze” da quelle “disquisizioni teologiche umane” che pretendevano di possedere la verità assoluta ed intangibile, quindi, l’infallibilità. Egli, per così dire, “si rifugia” nell’operare della Grazia, nell’agire in lui della Grazia di Dio, nella fede semplice dei piccoli che, però, sa smuovere le montagne”.

Peguy stesso scrive a un amico: “faccio parte di quei cattolici che darebbero tutto, S. Tommaso per lo Stabat, il Magnificat, l’Ave Maria e il Salve Regina” cioè quella “flotta di preghiere alla Vergine, come caravelle ricurve a fior d’acqua. Sono preghiere di riserva”. “Nel meccanismo della salvezza l’Ave Maria è l’estremo soccorso. Con questo non ci si può perdere”. 

È forse anche grazie a questa convinzione che descrivendo a un amico il pellegrinaggio che ha compiuto a Chartres, scrive: “Ero un altro uomo. Ho pregato un’ora nella cattedrale, il sabato sera; ho pregato un’ora la domenica mattina, prima della messa solenne. Ma non ho seguito la celebrazione: avevo paura della folla. Ho pregato, amico mio, come mai prima d’ora” e nel luglio del 1913, durante il suo secondo pellegrinaggio a Chartres, compiuto per ringraziare la Vergine per la guarigione del figlio Pierre, sempre allo stesso amico scrive: “Ho rischiato di morire. Faceva così caldo! Avevo percorso quaranta chilometri. Sarebbe bello morire lungo una strada e andare in cielo in men che non si dica”.

Inoltre, alla Vergine si rivolge dicendo: “Non domandiamo niente, rifugio del peccatore (così Peguy definisce Maria), se non l’ultimo posto nel vostro purgatorio, per piangere a lungo sulla nostra povera storia, e contemplare da lontano il vostro giovanile splendore”.

 

 

Peguy e Maria

 

Peguy affida tutto a Maria. Ha una fiducia estrema nella di Lei “onnipotenza presso il cuore di Dio”.

Si potrebbe applicare a lui stesso quello che egli scrive nel “Portico del mistero della seconda Virtù”: “Bisogna dire che era stato davvero ardito e che era un’azione audace. Eppure ogni cristiano può fare altrettanto. Anzi, ci si chiede perché non lo faccia. Come si prendono tre bambini per terra e li si mettono tutti e tre. Insieme. Nello steso tempo. Per divertimento. Per gioco. Nelle braccia della loro madre e della loro balia che ride. E protesta. Perché se ne mettono troppi. E non avrà la forza di portarli. Lui, audace come un uomo. Aveva preso, con la preghiera aveva preso. I suoi tre bambini nella malattia, nella miseria in cui versavano. E tranquillamente ve li aveva messi. Con la preghiera ve li aveva messi. Molto tranquillamente nelle braccia di colei che si è fatta carico di tutti i dolori del mondo. Le cui braccia sono già così cariche. Perché il Figlio ha preso tutti i peccati. Ma la Madre ha preso tutti i dolori”.

Nel frattempo anche la ferma opposizione della moglie inizia ad ammorbidirsi. Quando infatti il figlio Pierre si ammala così gravemente da giungere quasi a rischiare di morire (e Peguy ottenne dalla Vergine Santa, alla quale aveva affidato la vita del figlio, la “grazia” della guarigione), passato il pericolo, la signora Peguy confida al marito che “se le condizioni del bambino fossero ulteriormente peggiorate, avrebbe chiamato un prete” per far battezzare il piccolo “in extremis”.

L’amore e la fiducia che Peguy nutriva per la Madonna risulta chiaramente anche da un episodio concreto della vita del nostro poeta. Peguy, mentre si trovava al fronte (durante la prima Guerra), di stanza con altri soldati presso Vermans, passò tutta la notte precedente l’attacco militare in cui perse la vita, ad ornare di fiori una statua della Vergine (che era fortunosamente scampata alla distruzione operata dai giacobini ed era stata situata in un granaio lì vicino). Consapevole di essere in pericolo di morte avrà probabilmente voluto “approfittare” di quest’ultima “occasione” di affidare al cuore materno di Maria tutte le persone che più portava nel cuore: la moglie e i figli.

La grazia della conversione dei suoi cari, che Peguy aveva tanto implorato dalla Vergine Santa, infatti, si compirà, ma … solo dopo la sua morte.

 

 

Conclusione

 

Perciò, poiché “...Bors è colui che è venuto a portare testimonianza alla verità del mistero stesso...” possiamo riferire anche a Peguy ciò che Franco Corsi scrive in riferimento alla figura letteraria di Bors: “Si tratta della figura dell'uomo comune, che tuttavia non teme di lanciarsi in una ricerca sovrannaturale”. Gesù ha detto: “Ti ringrazio Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti, e le hai rivelate agli umili”. Il suo messaggio è rivolto ai semplici, non soltanto agli eroi. Per questo ancora oggi esistono molte persone comuni che hanno deciso di spendere la propria vita per un ideale che non è visibile, ma sovrannaturale. Si tratta di una scommessa sulla quale hanno fondato la propria vita, proprio come Bors, che pur vivendo nel mondo, è in grado di raggiungere la meta che si è prefissata: il Graal.

E concludiamo con una frase di Giussani che … diviene un invito rivolto a ciascuno di noi a … “sopperire a questa mancanza”: “Ciò che manca oggi nella Chiesa non è la ripetizione letterale dell’annuncio quanto l’esperienza di un incontro. L’uomo d’oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la loro vita ne è cambiata”.